lunedì 25 agosto 2008

Su James Ballard

«Vorrei aver avuto più mogli. Le mogli sono una cosa straordinaria e ci si dovrebbe sposare il più possibile. Se un matrimonio finisce, risposati al più presto. A diciotto anni la sapevo lunga sul sesso. E adesso a cinquanta anni che non so quasi niente. Ero uno studente in medicina e gli studenti in medicina tendono ad avere un atteggiamento più disinvolto. Quel che è più importante, gli studenti in medicina bazzicano con le infermiere; e le infermiere a quei tempi erano meravigliose, disinibite, una iniezione di vita. Non se sia ancor vero, ma lo scoprirò tra qualche anno quando finirà al reparto terminale». Era trascorso molto tempo dalla prima affermazione professionale, avvenuta a cavallo tra gi anni Cinquanta e Sessanta e rinnovata dalla popolarità de “La mostra delle atrocità” e “Crash”, ma James Ballard ancora non accettava il ruolo che gli era stato dato: scrittore di fantascienza.

Nel 1982 fu domandato a lui e ad alcuni suoi colleghi se il genere immaginativo per eccellenza fosse ancora in grado di individuare qualcosa di nuovo e possibilmente di prevedere il futuro. Tra gli altri risposero Anthony Burgess, che dichiarò di non scorgere più nessuna particolare visione in quel tipo di libri; Isaac Asimov, che ricordò come le recenti scoperte sul conto di Marte impedissero di contemplare un avvenire in cui fosse previsto un incontro con altre creature di quel pianeta o un’utilizzazione dei suoi canali; Primo Levi, che suggerì come la domanda andasse girata alla scienza e alla tecnica nelle quali egli, nonostante un latente pessimismo, continuava a credere; infine James Ballard, che lamentava la scomparsa dello stesso avvenire e indicava nel mal governo il peggioramento della vita collettiva, macchiata da una morale sempre più sporca. Successivamente, riferendosi al suo paese, Ballard ebbe a dichiarare: «Il futuro del pianeta, almeno da noi in Occidente, sarà di una noia mortale. La nuova Inghilterra è tutta qui; una realtà che non è più né città né campagna, una società usa e getta dove le relazioni personali non contano più, perché si sceglie un amico, un amante, una moglie come si sceglie una vacanza tutto compreso di cinque giorni in qualche località esotica di cui non capirai nulla. Accettiamo il ruolo che ci viene dato, quasi come i personaggi secondari di Sentieri».

Fu in quel periodo di tempo che morì, a soli cinquantaquattro anni, Philip Dick, uno dei più brillanti autori di narrativa di anticipazione; mentre appariva sugli schermi “Blade Runner”, che il regista inglese Ridley Scott aveva tratto dal romanzo dello scrittore “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, apparso nel 1968. Se Dick non è riuscito ad assistere alla messa in atto delle sue previsioni, tra cui la riduzione del mondo ad immagine, Ballard è stato testimone - attraverso le sue folgoranti intuizioni, il controllo mentale della materia trattata e l’approccio scientifico divulgativo adoperato come punto di partenza verso il surreale e il fantastico - di come spesso nella storia della civiltà i grandi balzi in avanti portino sull’orlo del disastro le società in cui avvengono. Se nel corso del tempo l’industria dello spettacolo si è avvicinata all’universo simbolico dei due scrittori, sono stati altrettanto numerosi gli interventi di studiosi ed esperti che hanno pian piano ridisegnato più seriamente il profilo del loro lavoro; proiettandone l’opera oltre i confini del genere per associarla alle tendenze letterarie più importanti e facendo di entrambi un singolare caso letterario, tanto corteggiato dallo show business quanto analizzato dal mondo intellettuale.

E’ la lettura di “Visioni” - una bella raccolta di interviste, saggi e interventi critici su e di James Ballard - a suscitare queste impressioni. La Shake lo rimanda in libreria in una nuova edizione arricchita, dopo una prima pubblicazione avvenuta nel 1994; mentre l’editore Fanucci ristampa “Divine invasioni”, la biografia di Philip Dick scritta da Lawrence Sutin. Il volume ribadisce l’attualità del messaggio di Ballard, riaffermando il fascino di quel territorio di confine, scaturito dalla sua scrittura paragonata dalla critica al codice dimenticato di un linguaggio geometrico in disuso, dove coesistono le riflessioni sull’arte del romanzo e sul compito della fantascienza, formando così un grande quadro complessivo su una provvisoria barriera di rovine. Affascina nello scrittore inglese il tentativo, comune ad altri recenti movimenti o gruppi d’avanguardia, di ricondurre la frantumazione dei linguaggi almeno sotto il controllo di una loro definizione intellettuale che recuperi prestigio e tecnica proprio rinunciando alla loro ricomposizione. «La gente ha tutto quello che sognava da generazioni, una casa con tutti i comfort, l’automobile, la possibilità di viaggiare, e lo stesso non è felice. Anzi, sembra più infelice che mai. Quando la gente non sa più cosa vuole, possono nascere falsi dèi, piccoli messia, religiosi o politici, totalitarismi di nuovo genere, in apparenza meno violenti ma forse più efficaci nel controllare le coscienze».

«E’ forse il tempo - si domanda Ballard - una struttura mentale obsoleta tramandata dai nostri antichi antenati, che inventarono il tempo seriale per smantellare una simultaneità che non riuscivano a controllare nella sua interezza? Il tempo dovrebbe essere liberalizzato e ognuno dovrebbe avere il suo?». Al messaggio politico contenuto sotto traccia nel suo lavoro si contrappongono in Ballard la disperazione e la mancanza di prospettive. La marea avanzante dell’umanità e del corso degli eventi appaiono come un processo cieco, caotico, privo di ogni direzione o mèta. Il solo senso della vita individuale è nell’amore e nella poesia; essa appare come il fiore condensato del tempo. E sono i suoi fiori, man mano che vengono colti, ad allontanare e a ritardare per qualche tempo la morte imminente, che si abbatte simultaneamente sulle cose, sulle persone, sulle metropoli, infine sugli amanti spezzando la loro unità. Nelle intenzioni dello scrittore la dimensione individuale, alimentata dagli affetti e dal linguaggio, appare scissa da quella collettiva, che si configura come una potenza ostile e minacciosa. Sembra non esserci speranza nella continuità storica e sociale, nella memoria dell’umanità. L’immortalità della bellezza si realizza solo nel cielo dell’arte. Ed è sorprendente come nei suoi racconti, sempre sorretti da una grande perfezione stilistica e formale e che non possiedono nulla di fantascientifico nel senso convenuto della parola, rivivano le forme e i concetti del simbolismo romantico o decadente. «I più grandi sviluppi del prossimo futuro non avranno luogo sulla Luna o su Marte, ma qui da noi, ed è lo spazio interno dell’uomo che deve essere esplorato, non quello interplanetario. L’unico pianeta alien è la terra».

 Vittorio Castelnuovo