lunedì 1 settembre 2008

Intervista a Philip Glass

Fino ai primi anni Ottanta Philip Glass non aveva ancora restituito la licenza di tassista, poiché essa gli forniva l’unica possibilità di guadagno. Eppure in quel periodo egli si era già affermato come il maggiore esponente della musica minimalista; la corrente che nella seconda metà dagli anni Sessanta, ispirandosi ai codici espressivi della musica orientale, aveva svelato le prospettive dell’avanguardia a frangie di appassionati provenienti dal rock. Durante il decennio successivo Glass aveva meglio definito la sua pozione, pubblicando dischi considerati di riferimento per l’orizzonte della musica contemporanea come “Einstein On The Beach”, il commento musicale dell’omonimo spettacolo teatrale di Bob Wilson, e come “Music With Changing Parts”, una delle opere che meglio esprimono il suo misterioso messaggio musicale.

Glass suonava nei giardini pubblici, nelle biblioteche e nelle sale da thé, contribuendo a quella rinascita  newyorkese che nello stesso periodo produceva le fotografie di Robert Mapplethorpe, la new-wave di Patti Smith e dei Talking Heads, i film di Martin Scorsese, creando un canone del tutto inedito per gli standard della cultura pop. Erano gli anni Settanta e New York era diventata, come forse non le era capitato neppure nel decennio precedente nonostante figure come Bob Dylan e Andy Warhol, la capitale culturale del mondo moderno.

Applicando quella duttilità che si riscontra nel lavoro di molti artisti anglosassoni, Glass ha affrontato nel corso della sua vicenda numerose esperienze (per mettere ordine nella sua immensa discografica, puntellata dalla recente ristampa del fondamentale “Music In Twelve Parts”, consigliamo la consultazione del sito www.evolutionmusic.it); incidendo albums di solo piano; dirigendo ensemble orchestrali, con i quali ha forse raggiunto i suoi risultati migliori; scrivendo brani per la performer Laurie Anderson e per il cantautore Paul Simon; producendo gruppi come i Polyrock; componendo le musiche per “Kundum” di Martin Scorsese e per la riedizione di “Dracula”, affidando le sue partiture al Kronos Quartet; collaborando con il poeta Allen Ginsberg all’allestimento di “Hydrogen Jukebox”; penetrando nella seducente dimensione dei raga  indù insieme a Ravi Shankar, e assimilando così il metodo di armonie stazionarie che sostituivano le antiche modulazioni e il contappunto appresi da ragazzo nelle scuola di Parigi di Nadia Boulanger; lavorando per il teatro curando spettacoli di estrema originalità come quelli dedicati all’artista francese Jean Cocteau; firmando un omaggio a David Bowie e Brian Eno, orchestrando i loro due classici dischi “Low” e “Heroes”, e valorizzando in questo modo la sintesi tra arte e destino così felicemente descritta dai due musicisti; infine concependo il ciclo di canzoni di “Book Of Longing” con Leonard Cohen, derivandone un disco e uno spettacolo che ha portato pure nel nostro paese.

Come diversi altri esponenti della scena statunitense - da John Coltrane a Keith Jarrett, dallo stesso Leonard Cohen fino a Wayne Shorter - anche Glass è rimasto ammaliato da quel percorso di moltiplicazione dei sensi e dei rinvii che l’Oriente espande e dissolve. Ed è all’interno di questo percorso, che la studiosa Annette Michelson ha chiamato l’ultima fermata dell’uomo nel viaggio verso la liberazione del corpo e del rinnovamento, che va individuato il senso della sua ricerca. L’unico della sua generazione che sia riuscito, partendo da un settore discografico all’epoca inesistente in termini di mercato, a diventare un’autentica vedette. E lasciando dietro di lui, almeno in termini di popolarità, artisti altrettanto bravi - c’è chi dice persino più bravi - come Steve Reich e Terry Riley.

 

Il pubblico conosce e apprezza la sua musica. In realtà c’è un aspetto della sua personalità altrettanto importante: il rapporto con la letteratura, filtrato dall’amicizia con Allen Ginsberg.

PG:  Mi fa piacere parlare di Allen, soprattutto oggi che non c’é più. Ci conoscevamo da anni, ma solo nell’ultima parte della sua vita abbiamo cominciato a lavorare insieme. E’ importante rilevare che lui aveva dieci anni più di me: quando io venni a New York lui aveva trent’anni e io ne avevo venti, e quello era il periodo in cui lui faceva i readings  nelle università e faceva anche spettacoli dal vivo. Io lo seguivo in questi spettacoli, però mi sono avvicinato a lui per lavorare insieme soltanto alcuni anni dopo. Il primo che ho conosciuto del gruppo della beat-generation è stato William Burroughs. L’ho conosciuto a Parigi nel 1965. Erano una generazione di persone un po’ più anziane di me; un gruppo di persone dedite alla letteratura, e siccome lavoravo nel campo della musica non avevamo molte occasioni di lavorare insieme.

 

Dunque la realizzazione di “Hydrogen Jukebox” rappresenta un motivo di soddisfazione.

PG: Esatto. Fui io che proposi ad Allen di mettere in musica dei brani tratti da quel lavoro. In quel periodo abitavamo nello stesso quartiere, ci vedevamo spesso, facevamo spettacoli insieme e progettavamo di fare altre cose per il futuro. L’idea base del progetto con Ginsberg era nata perché io volevo fare una specie di ritratto dell’America; apprezzavo Allen come artista ed ero convinto che fosse il migliore scrittore ad essersi occupato di problemi sociali negli ultimi trent’anni. Passammo dei mesi a leggere le sue poesie e alla fine arrivammo a selezionare circa venti componimenti. Quello che facevamo era semplicemente metterci lì a leggere poesie e, quando ne ritenevamo una particolarmente interessante, la segnavamo. Fu allora che scegliemmo alcuni argomenti come il movimento per la pace, l’ecologia, la discriminazione sessuale, la corruzione nel governo.

 

Individuando delle tracce…

PG: Sì, questi erano gli argomenti pubblici, ma c’erano anche argomenti più privati. Per esempio nella poesia “Howl!” c’erano temi pubblici, ma espressi in modo molto personale, e in generale tutti questi argomenti coprivano un periodo che andava dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta. Scrissi tutta la musica una volta che ero in Brasile e tornato in America decidemmo sul modo di metterla in scena. Si trattava di diciannove pezzi; non c’era un vero filo conduttore tra le varie canzoni, erano delle storie messe insieme. Poi andammo in tournée negli Stati Uniti e in Italia, al Festival di Spoleto. Il risultato finale del lavoro teatrale mi è piaciuto molto, ancora oggi mi piace, ma penso che sul pubblico abbia avuto un impatto troppo intellettuale. Non ha avuto per esempio quel richiamo popolare che ha avuto “La Bella e La Bestia” di Cocteau.

 

Le cose sono molto cambiate da quando ha cominciato.

PG: Sì, certo. Ho cominciato a lavorare alla fine degli anni Sessanta e allora non c’era un grande pubblico; però facevo concerti continuamente dappertutto in America, anche in gallerie d’arte o spazi per studenti di università. Non avevo mai la sensazione di essere isolato, perché suonavo ed avevo sempre del pubblico con me.

 

Ma il senso di isolamento è stato in passato un problema.

PG: Forse, trent’anni fa venni qui in Italia per la prima volta, mi esibii a Roma. Ho tanti ricordi. Se non avessi fatto il lavoro che faccio, se avessi soltanto insegnato, allora in quel caso mi sarei sentito isolato, sarebbe stato un problema. Oggi faccio in media trenta concerti all’anno; a questo punto sono circa un migliaio di concerti, non riesco più a contarli. Ho sempre avuto la sensazione che c’era un pubblico ad ascoltarmi, è diventato sempre più grande nel tempo. Durante i primi dieci anni il pubblico era composto da poche persone; fu alla fine degli anni Settanta che cominciò ad essere più numeroso.

 

Lei parla dell’isolamento pure da un altro punto di vista.

PG: Sì, è così; volevo accennare all’isolamento culturale. Negli Stati Uniti abbiamo un problema che non so se sia presente in Europa. Da una parte esiste una società di massa, e la società di massa non è assolutamente interessata all’arte. Anche quando si parla di ‘mainstream artist’ , cioé di artisti che vanno appunto con la corrente, questi spesso non rientrano in uno schema di cultura popolare. Quando si parla di cultura di massa in America si intende la televisione, gli sport e in generale gli spettacoli di intrattenimento. In America è accaduto che la cultura è diventata intrattenimento e si tende a confondere le due cose per cui il valore di un artista si basa sulla capacità: la sua capacità di intrattenere il pubblico. Questo fa perdere il valore artistico della persona, e questo sta diventando un problema internazionale, non più soltanto un problema americano. Certo l’arte dovrebbe anche intrattenere e l’opera è proprio il campo in cui arte e intrattenimento vanno di pari passo. Voi italiani appartenete ad una tradizione in cui arte e intrattenimento sono sempre andati insieme. Sono i casi appunto di Verdi, di Puccini. Però oggi arte e intrattenimento sono stati separati. Oggi l’intrattenimento si fa per soldi e l’arte è per poche persone. Chiaramente questo porta ad una situazione pericolosa.

 

Intende battersi per sconfiggere questa minaccia?

PG: Alcune delle mie opere recenti come “Juke-box all’idrogeno” o “La bella e la bestia” offrono di nuovo questo valore: arte e intrattenimento vanno di pari passo insieme. Come si può vedere ci sono molte persone giovani ad assistere ai miei spettacoli; nei prossimi anni raggiungeremo una media di novata esibizioni l’anno. Comunque bisogna dire che non tutti hanno il carattere per farlo, ci vuole una certa facilità di comunicazione con le persone e anche una dose di disponibilità. Alcuni artisti non ne hanno affatto. Tu mi hai accompagnato tante volte in giro per l’Italia; quante volte mi hai visto arrivare in una città, andare in una libreria per un incontro pubblico, suonare il piano e parlare con le persone? Tutte cose che io faccio volentieri e abbastanza spesso.

 

Nel suo comportamento si riscontra un carattere americano.

PG: Sì, ma non del tutto. Vedi, ci sono artisti che non vogliono abbandonare lo studio, ci possono essere vari motivi dietro questo atteggiamento. Magari sono stanchi o sono arrabbiati o si sentono soli, non lo so. Del resto io credo che noi artisti abbiamo una grossa responsabilità. Per esempio se guardiamo al mondo del cinema, ogni volta che un film esce, la settimana seguente sul giornale troviamo scritto quanti soldi ha fatto il film. I giornali parlano di milioni di dollari, ma non dicono assolutamente se il film è buono o no. Al pubblico che legge il giornale che cosa importa se Spielberg ha guadagnato venti o trenta milioni di dollari, l’incasso del film diventa il metro di valutazione del lavoro e questo è un modo molto pericoloso di pensare. Non si discute sul fatto che, per esempio, “Jurassic Park” era o non era un bel film, quello che importa è che ha guadagnato cento milioni e questo è pazzesco. Si arriva al punto che, se un film esce nel primo fine-settimana e non ha guadagnato abbastanza soldi, viene ritirato; e questo succede anche ai libri, ai dischi e all’arte in genere. Ripeto, è una situazione molto pericolosa. Credo che dal punto di vista culturale l’America è ancora oggi un paese molto importante. Certo io sono critico nei confronti dei vari aspetti della società americana, ma dal punto di vista artistico è sicuramente il posto migliore in cui lavorare, senz’altro uno dei paesi più aperti nei confronti delle sperimentazioni e della maggior parte delle avanguardie che vengono realizzate soprattutto là. Inoltre c’è una grande dose di energia e siccome gli artisti non prendono sovvenzioni né dal governo, né dalle grandi corporazioni, essi tendono ad essere indipendenti e, d’altra parte, l’indipendenza è un fattore fondamentale nell’arte e io trovo che gli artisti americani sono tra i più indipendenti.

 

E’ una posizione in contrasto con il polemico teorema di Gore Vidal; secondo il quale ogni artista americano, per il semplice fatto di far parte di una grande potenza, automaticamente diventa un grande artista.

PG: Per quanto riguarda la questione della grande potenza, per me la questione oggi sta in termini di lotta economica. Quello che conta veramente è il potere economico e le forze che lo rappresentano. Credo che sarebbe un errore sottovalutare la creatività, l’energia degli artisti americani. Io viaggio molto,  vedo parecchie cose e ho avuto modo di rendermi conto che noi artisti americani abbiamo una visione più indipendente della storia, non abbiamo sulle spalle il peso della storia che può avere un artista europeo. Quand’ero giovane mi sono ribellato ai modelli educativi che avevo davanti a me e questo dev’essere senz’altro più difficile per un artista europeo. Per noi artisti americani è più facile e quindi ci sono dei caratteri che trovo fantastici nell’America ed altri che trovo invece terribili. Mio figlio una volta mi ha detto, quando aveva sedici anni, parlando di New York: “Sai, babbo, New York è senz’altro il posto più bello e più tremendo del mondo”. E io gli ho risposto: “Bene, mi fa piacere che tu l’abbia capito”. Quindi, tornando al punto di prima, noi artisti non prendiamo sovvenzioni dal governo, non prendiamo più molte sovvenzioni dalle corporazioni e, d’accordo, alcuni di noi hanno soldi, circa il 30-40% degli artisti hanno i genitori ricchi.

 

Per lei invece è stata più dura.

PG:  Per quanto riguarda me io ho avuto degli ottimi genitori, ma mia madre era un’insegnate di scuola, quindi non avevamo molti soldi, perciò la maggior parte di noi doveva lavorare ed io, ad esempio, fino ai quarant’anni ho fatto dei lavori saltuari. Ho spostato mobili, ho guidato taxi, ho lavorato nei cantieri edili, e questa è una cosa molto normale per noi. Quindi dovevo scrivere la musica di notte, ma era una cosa abbastanza normale: quando a New York si va in un ristorante ci sono buone possibilità che il cameriere che ci sta servendo sia uno scrittore o un attore.

 

Questa indipendenza ha dunque un risvolto economico.

PG: Infatti. Per esempio quando ho fatto “La bella e la bestia” l’ho finanziata da solo, facendo concerti. Non ho avuto denaro da nessuno; il denaro è venuto da fonti diverse, dai soldi che ho preso per i concerti di piano, dalla casa discografica quando ho inciso il disco dell’opera. Inoltre avevo ancora denaro che mi era avanzato dalla tournée precedente. Quando si può contare solo sulle proprie forze, si prende il proprio lavoro con grande impegno e con grande dedizione. Coloro che non hanno l’impegno sufficiente per ricorrere alle proprie risorse e che non prendono il loro lavoro con grande dedizione, non hanno abbastanza energia, hanno chiuso, sono finiti. Le cose stanno così, non c’è più niente da fare. Il vantaggio di essere così indipendenti è che si può criticare chiunque, perché nessuno mi ha dato niente in fondo.

 

Come è cambiata la scena musicale in tutto questo tempo?

PG: Fra gli artisti minimalisti c’è stata una certa coesione fino alla metà degli anni Settanta. Oggi c’è molta più diversità e comunque la musica, le tendenze musicali, tornano ad orientarsi verso l’esplorazione della tonalità e comunicazione con il pubblico. I compositori dodecafonici degli anni Sessanta non erano interessati a queste cose; mentre la mia generazione ha mostrato più interesse per questi atteggiamenti. E in generale anche adesso sono più interessati al pubblico, a trovare un linguaggio comune, un linguaggio che comunque riesca a valutare la tonalità della musica, il linguaggio tonale. Tra i nuovi compositori c’è un grande interesse per l’improvvisazione. Ed esiste una generazione di compositori che sono interessati per esempio al jazz. Penso a John Zorn o a Bill Frisell.

 

Che sono effettivamente molto bravi…

PG: Il linguaggio dei compositori che adesso sono fra i trenta e i quarant’anni è completamente diverso dal mio e tra di loro ci sono dei tipi veramente interessati. Questa generazione ha delle grandi potenzialità, come appunto John Zorn o Bill Frisell. Faccio solo dei nomi, perché sono diversi da noi, però quello che è interessante è che c’è un bel rapporto tra le nostre generazioni. Loro vengono ai miei concerti ed io vado ai loro e ci sono sempre molte cose di cui parliamo; ci sono argomenti come le compagnie discografiche, le compagnie teatrali o i giornalisti che incontriamo: non ci mancano mai gli argomenti da trattare.

 

Lo scenario è cambiato rispetto a prima.

PG: La sensazione è che ai nuovi compositori non importi più tanto della musica minimalista, credo che la cosa più importante adesso sia la nascita del teatro musicale, l’emergere di un nuovo genere nel teatro musicale. Gli elementi interessanti che connotano le tendenze musicali attuali sono l’improvvisazione e l’integrazione tra arte popolare e arte musicale. Altri elementi interessanti sono gli esperimenti con le nuove tecnologie.

 

Anche in questo che lei dice c’è un carattere americano.

PG: Da ragazzo ho lavorato in un negozio di dischi, avevo dodici anni. Il proprietario del negozio era mio padre. Ascoltavo di tutto, dalla musica classica al genere popolare, non il rock, perché allora non esisteva ancora: ricordo bene quando alla metà degli anni Cinquanta uscirono i primi dischi di Presley, mi ricordo quando li vendevo ed ero curioso di sapere che roba era quella che la gente stava comprando. Poi più tardi a New York c’era un ambiente molto fluido musicalmente; ho sentito tanti concerti dal vivo. Ho sentito Billie Holliday, Ben Webster e, più tardi, sono andato a sentire John Coltrane e Bill Evans. Anche se poi ho scritto un genere diverso, quando mi sono messo a comporre musica, la musica jazz faceva parte del mio mondo.

 

Di fatto lei appartiene all’arte contemporanea.

PG: E’ così, ci sono tanti musicisti pop che mi hanno chiesto di aiutarli. Ci sono per esempio vari musicisti che non riescono a comporre la musica, io li ho sempre aiutati, mi piaceva aiutarli e così è stato anche un modo per conoscere la loro musica. Tempo fa ho lavorato con Marisa Monte e in genere sono questi musicisti che mi chiamano al telefono e mi chiedono: “Philip, puoi darci una mano?”. E in genere non dico mai di no. In media non ho più collaborato con un artista all’anno, ma col passare degli anni ho conosciuto tantissimi artisti. Ho lavorato con Paul Simon, con David Bowie, perciò adesso, quando guardo al mondo della musica, esso non mi pare solo popolato da cantanti, da pianisti o da direttori d’orchestra, ma so che ci sono anche altri compositori. Per cui ho una visione allargata del mondo della musica e mi succede che quando vado in un club o entro in uno studio musicale non mi sento mai un estraneo. E questo mi piace.

 

Per molti ascoltatori la sua musica conserva un’anima malinconica. Avverti anche lei questa sfumatura?

PG: Ci sono altre persone che mi hanno detto questa cosa o che si chiedono come mai io sembri una persona così felice e la mia musica suoni invece così triste. Ma la tristezza dipende anche dai temi che io scelgo. Del resto sono io che scelgo gli argomenti della musica; bisogna osservare che quando un artista ha raggiunto il pieno controllo dei propri mezzi e ha, per così dire, imparato il mestiere, insomma ha raggiunto la piena maturità, a quel punto l’arte diventa soltanto un riflesso dell’artista.

 

Lei è un uomo molto pratico. Ricorda una battuta di David Bowie: «Quando una cosa funziona, buttala».

PG: Non sapevo che David Bowie avesse detto una cosa del genere e comunque sono d’accordo. Anch’io sono delle opinione che quando qualcosa funziona non andrebbe mai ripetuta. Per esempio “Einstein on the beach” era un pezzo molto famoso, ma non ho mai voluto ripeterlo. A volte mi sono detto che non mi dispiacerebbe ripetere i miei insuccessi, ma non ripeterei mai i miei successi. Non ho molta fedeltà verso me stesso. A volte dico che il primo problema che ha un compositore è quello di trovare una voce e il secondo è quello di sbarazzarsene. Più avanti si va con gli anni e più lavoro si ha e il problema diventa sempre più grosso. In realtà io non cerco un’identità, ma semmai il contrario. Il risultato finale però è trovare la propria identità. E funziona proprio così: più si sfugge a se stessi e più si trova se stessi. Non so come spiegarlo, è un paradosso, ma è così.

 

Le piace la scena culturale attuale?

PG: Prima di tutto direi che la cultura, e se per cultura intendiamo la scrittura, la musica, la pittura, le arti visive, per essere viva deve continuare a rinnovarsi. Quando noi guardiamo alla cultura contemporanea, questo è quello che accade: è una cultura in evoluzione ed è una forma di espressione che cerca di parlare il linguaggio del mondo in cui viviamo oggi. Quegli artisti che riescono a portare elementi di freschezza e novità all’interno di questo mondo sono molto preziosi per noi. E possono venire da qualsiasi luogo, possono essere i Beatles, Dylan o John Cage, e immediatamente dire qualcosa che è incredibile, così potente che ci abbraccia. Non è sempre vero che subito ci lasciamo affascinare: mi ricordo che, quando ero giovane e vidi per la prima volta il lavoro di Jackson Pollack, ne rimasi davvero scioccato. Lo stesso accadde per Allen Ginsberg. Rimasi scioccato, ma era anche molto chiaro che quella gente stava parlando con una voce che era davvero molto autentica. E lo shock è importante per noi, perché è un modo di svegliarci rispetto al mondo nel quale stiamo vivendo.

 

Qual’è la dote più importante per un artista: la curiosità?

PG: Sicuramente la curiosità è importante, ma c’è una cosa che è ancora più importante ed è l’onestà, l’onestà dell’artista che dice le cose nelle quali realmente crede, anche nei casi in cui lo stesso artista sia esso stesso sorpreso di ciò che ha fatto. E allora arriviamo all’idea di coraggio. Abbiamo raggiunto i tre punti che sono: la curiosità, l’onestà e il coraggio, i tre elementi importanti, i tre cardini del processo creativo. E non sono gli unici, ve ne sono altri. E’ interessante vedere comunque come si passi attraverso questi tre elementi che sono comuni ad esempio a Pollock, alle prime cose di Dylan o John Cage, persone che apprezzo e stimo.

 

Infatti li menziona spesso.

PG: Il motivo principale per cui ho scritto opere come “Eknathon”, “Gandhi” o “Einstein on the beach” era l’aver individuato dei personaggi che hanno cambiato il mondo in modo pacifico e che soprattutto hanno cambiato il mondo attraverso le idee. Così John Cage. Io amo molto il suo lavoro, l’ho conosciuto di persona. Quello che lui ha insegnato è guardare la musica anche stando in un auditorium in una maniera diversa. E questo sicuramente rimarrà anche se continueranno ad esserci gli auditorium e gli organizzatori di concerti. Molti mi chiedono dove ho preso le idee per queste tre opere. E’ stato raccontare un pezzo della mia vita e come queste tre opere appartengano fortemente alla mia vita.

 

Oggi che definizione darebbe del suo lavoro?

PG: Il linguaggio che mi è più consono è quello della musica. Ciò nonostante il parlare della musica mi rende felice, perché è un modo per dare un contributo al nostro modo di vivere. La musica è un elemento importante della nostra vita e può renderla decisamente più ricca. Anche il parlarne può essere utile. Il significato dell’arte è prendere elementi dal quotidiano e trasferirli in qualcosa che non lo è, cioè in un aspetto creativo, fantastico. In questo mi riconosco in quanto artista. Se penso alla mia musica, la vedo come una musica che prende elementi etnici provenienti da altri paesi e mondi, ma anche attenta all’impatto che la tecnologia ha sul mondo di oggi e sulla composizione della musica stessa. Il tentativo è quello di guardarsi attorno e di scrivere della musica che racconti del mio mondo, di quello in cui vivo e che sappia essere elemento di comunicazione, come una sorta di lente attraverso la quale descrivere ciò che mi circonda. Per me la musica è un elemento della comunicazione.

Vittorio Castelnuovo