lunedì 18 agosto 2008

Su David Byrne

La pubblicazione di “Everything That Happens Will Happen Today” - che dopo ventisette anni lo vede di nuovo al fianco di Brian Eno, meraviglioso agitatore culturale delle consuetudini pop - ha confermato il magnetismo di David Byrne ed assegnato un’ulteriore sfumatura storica all’ambiente culturale che lo ha prodotto. Insieme a pochi altri egli ha affermato la figura del musicista indipendente, ricercatore a tutto raggio, rigoroso, sorvegliato. Non limitato ad una singola attività riduttiva, ma indissolubilmente legati a quel senso di promessa insito nella sua educazione artistica, esso ha spianato la strada ad una discendenza di artisti per i quali l'esercizio della musica non è una professione né una gloria, ma una forma di felicità. Attraverso l'impegno di questi artisti, New York ha da tempo ribadito il suo ruolo centrale all'interno di quella prospettiva che ha l'arte come destino. Mentre al Chelsea Hotel William Burroguhs e Allen Ginsberg raccoglievano i ricordi di una vita senza tregua, la città inventava la tecnologia del piacere della disco-music, che si sarebbe poi riprodotta lungo le derive della techno fino ad imprimere, con l'acid house, l'ectasy e la generazione chimica, una radicale trasformazione del divertimento. Aveva fatto da baricentro al teatro di Bob Wilson; al nonsense delle New York Dolls e dei Ramones; ai testi e alle fotografie di Gerad Malanga; agli esperimenti di Alan Vega e di Glenn Branca; alle commedie di Sam Shepard; alle canzoni meticcie di Mink De Ville; alla disperazione di Jaco Pastorius, il geniale e sfortunato bassista dei Weather Report, ridotto a vivere in un furgone vicino ad un campo di basket; ai libri dolorosi di Jim Carroll; agli articoli maledetti di Lester Bangs; all'esperienza metafisica di Philip Glass e di Steve Reich, i compositori che nelle sale da the e nelle biblioteche pubbliche reclamavano con le loro ipotesi minimali un silenzio del pensiero. New York aveva fatto da cassa di risononanza all'onda d'urto del punk, nato sulla costa occidentale dalle crepe di un suono nero ed aspro, ma esploso nella città che più di altre sembrava dettare lo scambio tra paesaggio e simulacro; come aveva compreso, scrutando lungo i versi di una poesia urbana e visionaria, Martin Scorsese nella violenta parabola di "Taxi Driver"; che allineava Dostoevskij e insonnia notturna e sembrava davvero fare da eco al monito dei Sex Pistols, il più celebere e il più discutibile dei gruppi punk: quando non c'è futuro, non ci può essere peccato. Il clima psicologico della metropoli produceva il jazz spigoloso e astratto di John Lurie; e la tensione del Patti Smith Group, che nel 1975 con l'ausilio di Robert Mapplethorpe pubblicò, combinando Rimbaud e Rolling Stones, il disco "Horses"; provocatorio manifesto di quel contromovimento dove le canzoni conservavano la componente di aggressività ma inciampavano nelle forme gentili della poesia. Secondo un nuovo canone di bellezza colto anche da Tom Verlaine, autore insieme ai suoi Television del lunatico e incantevole “Marquee Moon”, modello di riferimento di tanto rock contemporaneo. C'è chi parlò, come Greil Marcus in un libro molto importante intitolato "Tracce Di Rossetto", di affinità tra il punk e il dadaismo. Quello che accadde in quella lunga stagione condizionò la sensibilità di molti artisti degli anni Ottanta. Dalle vessazioni di Lydia Lunch ai labirinti di Laurie Anderson; dalla chimica di Arto Lindsay all’art-déco dei Sonic Youth e alle astrazioni di Bill Laswell, fino ad arrivare ai film di Amos Poe, di Susan Seidelman e di Jim Jarmush. «Lo spirito era più importante di quasiasi abilità tecnica», arrivò a commentare il regista di “Stranger Than Paradise” e “Down By Law”, sintetizzando l’azzardo e l’avventura di quel periodo. New York aveva espresso, dieci anni prima, la bellezza sbandata dei Velvet Underground. Lou Reed, che ne fu il principale protagonista, perseguiva la fede in un mondo al di fuori della sua stanza. Aveva ereditato un profondo senso di solitudine dal suo maestro Delmore Schwartz; lo scrittore morto povero in una stanza d'albergo di Manhattan, che a ventuno anni aveva scritto il racconto "Nei Sogni Cominciano Le Responsabilità", mettendo insieme quasi profeticamente un'eredità europea di memorie e un'eredità americana di desideri. Andy Warhol, l'eccentrico rivelatore dell'arte seriale e della multimedialità, disegnava la copertina a buccia di banana del primo disco del gruppo, e visualizzava la saldatura tra arte figurativa, letteratura e musica rock. Warhol fu di fatto l'artefice della liberazione della creatività americana rispetto alle mezze ombre dell'ideologia europea. Se un autore del vecchio continente vedeva con sospetto l'idea di ripetizione, uno del Nuovo Mondo la interpretava come una componente esaltante. Non era un handicap, ma un nuovo modello di riferimento. New York aveva articolato il proprio linguaggio musicale soprattutto su un piano politico: il Village, Dylan, i Fugs. A fare da spartiacque furono proprio i Velvet. Essi scelsero riguardo il suono di accentuare l’innata ripetitività del rock’n’roll, situandosi attraverso questa preferenza in una posizione non tanto distante da quella dei compositori d’avanguardia degli anni Sessanta;  impegnati anch’essi a ridurre agli estremi la musica e a privilegiare la stasi e la ripetizione, creando così nuovi standard di esecuzione e di fruizione, ai quali non erano estranei il rito e la trance. Riguardo l’uso delle parole invece i Velvet applicarono registri cupi, ambientando la loro letteratura nei lugohi marginali della metropoli, in cui l’illegalità è la norma. Il rock divenne pericoloso. Ci aveva visto giusto il giornalista Herbert Asbury, che nel 1927 aveva pubblicato “Gangs of New York” dove rievocava i fasti e le imprese della malavita della città, svelando tuttavia come la sua frenetica evoluzione conservasse un retroterra di vizio, povertà e corruzione politica. Ma è lo sguardo dello straniero che fa la rivoluzione, come ammoniva Alain Robbe-Grillet, e il disco di Brian Eno del 1981 "My Life In The Bush Of Ghost" era la traduzione musicale di questa visione, e della multiforme energia di New York. L'album formulava un insieme di piani sonori accostati con ampia libertà sperimentale, sfociando in un audace accostamento di primitive radici culturali e possibilità della nuova tecnologia. Eno (già responsabile del progetto “No New York”, prima e sconcertante panoramica della corrente più estrema della new-wave newyorkes) lo incise con David Byrne. Byrne era in quel periodo, grazie alla sua leadership nei Talking Heads, una delle figure più in vista della disarticolata scena newyorkese. Eno aveva prodotto il disco dei Talking Heads "Remain In Light" del 1980, dove veniva sviluppata una nuova definizione di suono e di ritmo. Concepito su un principio di musica orizzontale, rinunciando alla linearità del linguaggio ordinario, l'album suonava davvero in maniera inconsueta, passando attraverso un lavoro di improvvisazione composto da materiali sonori preregistrati e da parti letterarie ritagliate da giornali e programmi radiofonici, alzando sensibilmente le aspirazioni della cultura rock, mai così vicina alla rappresentazione globale della civiltà del tempo. Questa è la cornice di significato dentro la quale Byrne ha mosso i suoi passi, scagliandosi di continuo contro l’arte che funziona a luce diurna e vive del principio del senso comune. Sono trascorsi molti anni dal suo esordio ma oggi più che mai egli appare, con tutta l’organizzazione di significati che la sua esperienza rappresenta, un anello di congiunzione tra l’onda lunga degli anni Sessanta e i molteplici indirizzi di una ricerca ancora molto vivace.
Vittorio Castelnuovo