martedì 6 gennaio 2009

Su Boris Vian




Nell’introduzione a “Musika & Dollaroni” di Boris Vian, che esce in queste settimane per Stampa Alternativa, Gianfranco Salvatore (che in passato aveva curato dello stesso autore e per il medesimo editore “Jazz! Rassegna stramba”) si impegna giustamente a rimarcare sia il valore del testo - pubblicato in Francia nel 1958, un anno prima la morte del drammaturgo avvenuta in un cinema di Parigi, col titolo “En avant la zizique…et par ici les gros sous” - sia la singolare vicenda dello scrittore. Una figura che nel nostro paese, nonostante l’attenzione dell’editoria grande e piccina, da Einaudi a Marcos y Marcos, non hai mai veramente suscitato l’interesse del pubblico. Eppure dovrebbero affascinare, anche se c’è chi afferma che gli ha nociuto proprio l’essere un dilettante di talento, le multiformi sfaccettature della sua frenetica avventura personale: ingegnere, romanziere, poeta, pittore, cantante, trombettista, critico musicale, attore, traduttore, esperto di fantascienza e direttore artistico di case discografiche.

Insieme ad altre figure di spicco della cultura nazionale dell’epoca tipo lo scrittore Raymond Queneau, la cantante Juliette Greco e il poeta Paul Eluard - di ben altra caratura rispetto quelle attuali, aspetto evidenziato da Jérome Garcin in “Nuovi miti d’oggi. Da Barthes alla Smart”, stampato da Isbn; del resto, la qualità di una società si misura pure dallo spessore dei suoi outsiders - Vian fu il protagonista della vita notturna della capitale francese durante gli anni Cinquanta, e l’animatore dei primi circoli di Patafisica (!) i cui esoterici principi parecchi anni dopo vennero declinati nel campo del musica giovanile dai Soft Machine. Il gruppo inglese che prese spunto da William Burroughs e per il quale la stampa di settore coniò appositamente l’espressione dada rock, per meglio definire la loro informale colonna sonora, del tutto inconsueta per gli standard del pop. L‘entusiasmo disarmante di Vian e la sua continua tensione utopica verso le alternative possibili, finirono così col toccare perfino la rivoluzione culturale portata avanti negli anni Sessanta dalla contestazione studentesca; più sensibile all’elogio del principiante, come a suo tempo ebbe a raccontare Ermanno Cavazzoni, che all’élite degli intellettuali, gettando virtualmente le basi per un significativo controcircuito.

Che in Vian fossero presenti un’autentica visione, alimentata da una passione che prescindeva il vantaggio utilitario, e contemporaneamente un’indicazione di una linea di resistenza e di svolta rispetto l‘imbroglio dello show business; ancora, che nel suo lavoro esistesse una componente suggestivamente e provocatoriamente rivolta al futuro dell’industria culturale, lo si deduce dalla lettura del libro, ben tradotto da Michele Vietri. Suddiviso in più di dieci capitoli - che hanno per argomento, tra le altre cose: la registrazione, il gusto del pubblico, i mezzi di comunicazione, il jazz e l’attualità della musica di consumo - il testo esprime sottotraccia il carattere della migliore narrativa di anticipazione; quando la denuncia dei meccanismi produttivi del mercato dell’arte, con particolare riferimento al mondo della canzone, viene allineata a quella del malcostume degli autori e degli interpreti e infine alla nefandezza dei critici. Colpevoli quest’ultimi di degradare ulteriormente la dimensione civica della collettività; abbassando, con il loro comportamento e le scelte effettuate, il livello dell’ascoltatore medio. «Il poco che occorre sapere, il critico di musica leggera generalmente non lo sa», scrive Vian. In un secondo momento e quasi preconizzando l’happening di Internet - basti pensare in generale al rapporto degli artisti con la Rete, e in particolare alla recente iniziativa di David Byrne e Brian Eno; il cui recente Cd, “Everything  That  Happens Will Happen Today”, è stato scelto direttamente dagli utenti, secondo modalità di forma e contenuto assolutamente personali, per tacere di analoghe decisioni prese da Elvis Costello e dai Radiohead - Vian aggiunge a questa forma di protesta la descrizione di un futuro possibile dove l’artista potrà pubblicare e gestire autonomamente la propria attività; ritrovare quel che di aperto e irrefrenabilmente anarchico può stimolare le esperienze più feconde e recuperare l’ostinazione e la perseveranza nello svolgimento del suo lavoro, andando molto aldilà del comune esercizio professionale e recuperando in questo modo l’esperienza della condivisione sociale. In un’occasione disse: «Una cosa eterna è una cosa di una certa importanza…non è quindi possibile prendere la canzone sotto gamba. Cosa resta della Rivoluzione francese se non Ca IraLa Carmagnole, la semplicissima Marsigliese, senza le quali ai nostri rappresentanti al governo sarebbe impossibile uscire, a testa alta e con passo elastico, da una seduta vergognosa».

Resta da aggiungere una riflessione. E cioè se il messaggio di Vian, davvero attuale nella sua denuncia - persino nella sua speranza; quando annuncia la libertà della radio come solo mezzo per riequilibrare il problema di una stampa non libera, e su questo toccherebbe impostare un altro capoverso… - trovi una ripercussione nello scenario italiano; che ha spesso scodinzolato dietro il modello anglosassone, sia sul piano artistico che su quello del marketing, e che da tempo è connotato da un autentico accanimento radiotelevisivo nei confronti della musica di qualità.

Ci sono ragioni storiche che spiegano queste contraddizioni, poiché da noi occuparsi di canzonette non è mai stato giudicato un mestiere vero e proprio. Il boom avvenne negli anni Cinquanta, sulla scia del successo del Festival di San Remo, e prese in contropiede il mondo dell’editoria, che non intuendone la portata sbagliò la valutazione considerandolo un interesse transitorio. Tuttavia sul momento bisognava soddisfare la curiosità degli utenti verso quella nuova area giornalistica; alla quale furono avviati, nel convincimento che il movimento di opinione sarebbe stato di breve durata, coloro che frequentavano le redazioni senza nessuna specifica competenza. Più o meno nello medesimo periodo fu commesso lo stesso errore di valutazione nei confronti del calcio, giudicato anch’esso un fenomeno di breve durata. Fu l’atmosfera del dopoguerra invece, con il desiderio della gente di dimenticare i dolori e le sofferenze, con il bisogno di tornare alla normalità e con la comparsa di una squadra fenomenale come il grande Torino, a consacrare il calcio come un elemento basilare della vita italiana. Tornando alla musica: l’idea era che parlare di Claudio Villa o di Modugno, di Mina o di Celentano, di Frank Sinatra o di Elvis Presley fosse una cosa che chiunque era in grado di fare. Sia pure sommariamente questo ci aiuta in parte a comprendere perché nel corso del tempo abbiamo avuto numerosi critici competenti di musica classica, di repertorio popolare, di jazz, di canzone politica - come Massimo Mila, Roberto Leydi, Michele Luciano Straniero, Gian Carlo Testoni, Arrigo Polillo, Sergio Liberovici, Diego Carpitella – e ben pochi di musica leggera. L’avvento nella seconda metà degli anni Settanta delle riviste specializzate, seguito da quello dei libri e delle radio indipendenti, sembrava avere creato un movimento, assegnato finalmente una prospettiva. La Rai ne aveva mano a mano preso coscienza ed aveva sviluppato un proprio stile; “StereoNotte” in radio, “Mister Fantasy” e “D.O.C.” in televisione. L’onda lunga degli anni Sessanta pareva aver trovato inoltre una nuova intonazione nell’impegno di editori come Savelli, GammaLibri, Lato Side, Stampa Alternativa, Arcana, che avevano individuato un canone originale nelle parole e nelle musiche nuove di quegli anni. Poi il brusco ridimensionamento a partire dagli anni Novanta; con le politiche discografiche, attuate dai principali network, esclusivamente rivolte alla musica di consumo ed un atteggiamento di radicale chiusura nei confronti delle proposte alternative. Fino a creare un mercato diviso i due parti: da un lato l’involucro vuoto delle canzoni in tv, con il triste primato di San Remo dove da tempo la discussione si anima solo riguardo la scelta del presentatore della rassegna, e dall’altro i canali sotterranei della musica non omologata, detentori di un capitale culturale sconosciuto alla società dei consumi e allo spettacolo mediatico.

 Mortificata da motivazioni mercantili (pure su questo prova a fare chiarezza l’agile volumetto “La discografia in Italia” di Luca Stante, da poco edito da Zona) la musica della gente, nella sua espressione più indipendente e seguendo proprio le indicazioni di Boris Vian raccolte cinquant’anni fa e profeticamente indirizzate verso l’inganno ai danni dell’immaginario collettivo, forse potrà persino rinascere dalle ceneri dell’omologazione. Celebrando il paradiso della comunicazione democratica, la ragnatela globale e cosmica del Web, come punto di ripartenza per agguantare tutto ciò che di dolce rimane nella vita.

Vittorio Castelnuovo

venerdì 26 dicembre 2008

Sull'ascolto

Nel suo recente libro “Breve storia del futuro”, edito da Fazi, mettendo insieme narrativa di anticipazione, approcci visionari ed osservazioni più attinenti la realtà, Jacques Attali ha indicato nel buon uso delle innovazioni tecniche e nella condivisione delle capacità creative la possibilità di migliorare la condizione umana, gettando le basi per la nascita di un’iperdemocrazia planetaria davvero a beneficio di tutti. Tra i più attivi intellettuali contemporanei Attali è stato in Francia una figura di spicco della sinistra, consigliere di Francois Mitterand e responsabile della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo; prima di accettare l’incarico offertogli dal presidente Sarkozy di dirigere la Commissioni sui freni della Crescita, di cui si è discusso anche nel nostro paese. 
Se l’idea di partenza di sviluppare un rapporto più maturo con gli oggetti e i prodotti industriali, dal personal computer al telefono mobile, non rappresenta una novità assoluta - fermo restando l’urgenza delle implicazioni sociali sull’impatto della tecnologia nella trasformazione dei servizi collettivi tipo la sanità, l’educazione e la sicurezza - colpisce la riflessione sulla necessità di assegnare all’esperienza artistica un ruolo di primo piano. Di fatto l’arte ci insegna come molte cose, con le quali oggi conviviamo, in realtà siano già successe. Noi pensiamo per esempio che Mandela - la cui biografia, scritta dall’ex ministro francese della cultura Jack Lang, è appena uscita per i tipi di Piemme - sia stato un leader nuovo nella storia del pianeta. Eppure l’ultima opera di Mozart, “La clemenza di Tito”, racconta la vicenda di una figura simile la sua; che perdona le persone che hanno tentato di ucciderlo e cerca di creare un nuovo governo con chi voleva eliminarlo. Gli uomini di potere piuttosto che domandarsi a cosa serva l’arte, non considerandola realmente come una componente della vita pubblica, dovrebbero riflettere su come essa possa essere invece alla testa della democrazia. 
Nel quadro di questa ricerca, dove i contenuti degli eventi sono analizzati su un piano insieme collettivo e profetico, è in particolare nella musica che Attali indica l’occasione di cogliere la diversità e l’attaccamento alla vita; la costruzione di uno spazio nuovo, inatteso e in qualche modo vicino all’attitudine del filosofo Gilles Deleuze, teorico della differenza e del movimento, che era affascinato dalla possibilità del cinema di dare attraverso le ombre e le luci un senso di realtà, capace di superare i limiti dello spettacolo e diventare gran teatro dell’esistenza. Da secoli la nostra cultura cerca di guardare il mondo; non ha capito, sembra volerci dire l’autore, che il mondo non si guarda, si ascolta. Sono parole potenti che ancora adesso aprono un cammino all’esplorazione dell’irrazionale, sviluppano un’ombra filosofica e creano un flusso nomade del desiderio, ma che Attali aveva già messo insieme e pronunciato. Quando, nel 1977, scrisse “Rumori”; un pamphlet sull’economia della musica che suscitò parecchio scalpore, pure in Italia dove fu pubblicato da Mazzotta, dove decifrava il suono come uno dei luoghi in cui cominciano i mutamenti e attraverso il quale si può capire meglio quali speranze siano ancora possibili. 
Se esista dunque un modo di ascoltare tipico della nostra età e in quali forme a partire dalla fine del Novecento esso si sia affermato, è un interrogativo che si sono posti molti pensatori. E’ stato il filosofo Mario Perniola ad inaugurare questa indagine; dando alle stampe per Einaudi nel 1991 “Del sentire”; ed individuando nel passato remoto dell’Occidente, quello dell’antichità classica, un’opportunità di percepire radicalmente opposta a quella attuale e anonima del già sentito. Un’interpretazione alternativa al palinsesto sensologico che conosciamo e inseparabile dall’esercizio della filosofia; in grado di soddisfare il desiderio di conoscenza e di costituire altresì una guida per l’azione, convocando le grandi opzioni del pensiero moderno fino all’amore del mondo.
In una direzione parallela si inscrive l’approccio del filologo Maurizio Bettini che in “Voci”, uscito per Einaudi, ha raccolto un’antropologia sonora del mondo antico. Persino commuovente nel ricreare una fonosfera popolata da lupi e lepri, miti dolorosi di usignoli e rondini, merli romani, francolini greci, upupe siciliane, pettirossi francesi; combinati con il colpo di martello dei fabbri, lo strepito delle macine dei mugnai, il cigolio dei carri e il suono della frusta. Risuonano così i canti degli uccelli, le grida degli animali e le lontane parole degli uomini. Voci che gli antichi consideravano messaggi di buono o cattivo augurio; capaci di predire il futuro, annunciare la nuova stagione e persino di resuscitare antiche leggende come di fornire ai musicisti e ai poeti un castello di memorie sonore, all’interno del quale scovare occasioni precedentemente ignorate di conforto.
Una presa di posizione sull’inciviltà del rumore arriva invece da Gillo Dorfles, che in “Horror pleni”, edito da Castelvecchi, si scaglia contro la saturazione del mondo dei media. Il critico d’arte si domanda se in un’epoca satura di segnali; mortificata dalla pubblicità e dalla propaganda politica; stordita dalla produzione incontrollata di letteratura, arte e moda; e che nel frattempo ha perduto la memoria degli interminati spazi e dei sovrumani silenzi delle origini, sia possibile mantenere una consapevolezza. Con il loro groviglio di messaggi, creature virtuali ed eventi immaginari, i nuovi orizzonti dell’espressione digitale minacciano di tagliarci fuori dal divenire della cultura e di distorcere il nostro gusto. Eppure Dorfles ci invita lo stesso ad attraversarli, impegnandoci a riempirli di senso ed opponendoci a questa catena di eccessi con ogni nostra capacità informativa e comunicativa; mantenendo così inalterate, pure nel cambiamento, la nostra umanità e la nostra libertà, pure se questo passo rischia di comportare una maggiore insicuezza. 
Rispetto questa analisi si spinge oltre, prefiggendosi persino un obiettivo politico, Stuart Sim, che insegna Teoria critica presso la Università of Sunderland in Scozia e del quale Feltrinelli ha edito “Manifesto per il silenzio”. Dove - partendo dalla svalutazione del linguaggio; dagli effetti del rumore sul pensiero e sui comportamenti; e dall’abbandono delle città da parte di strati importanti delle classe medie, sulla falsariga delle visioni dello scrittore inglese James Ballard - egli intravede nella quiete il solo mezzo per sviluppare una reale attitudine critica, arrivando inoltre ad ipotizzare come le sorti della democrazia dipendano dalla difesa di questo diritto.
Epicentro di tragitto è stato il contributo reso dallo studioso canadese Marshall McLuhan. Professore di letteratura inglese, lettore appassionato della tradizione classica ed estimatore del modernismo angloamericano, McLuhan si affermò come guru dei mass media durate gli anni Sessanta; per aver esplorato l’approccio attraverso il quale i mezzi di comunicazione riconfigurano l’ambiente e condizionano la psiche umana; e per aver collegato, proprio grazie alla tradizione umanistica, la percezione del processo poetico della letteratura e delle arti, in una strategia privilegiata per far adattare l’utente al mondo contemporaneo. Nel 1969 lo studioso ebbe a dichiarare: «L’alfabetismo ha estromesso l’uomo dalla tribù, gli ha dato un occhio al posto dell’orecchio ed ha sostituito il suo sentimento di appartenenza collettiva, totale e in profondità con i valori visivi e lineari e con una conoscenza frammentaria. Di qui un possibile nota di ottimismo. Se la civiltà elettronica esalterà di nuovo l’orecchio, il senso della vicinanza, vi è qualche speranza che le divisioni possano attenuarsi». 
Da questa riflessione ha preso inizio il ragionamento di Michael Bull e Les Back in “Paesaggi sonori”, stampato da Il Saggiatore. Se vista e udito hanno un ruolo parimenti decisivo nella comprensione del mondo, ricordano i due ricercatori, il campo visivo ha sempre dominato i dibattiti sull’esperienza culturale. Finora infatti l’approccio con cui entriamo in relazione col mondo e lo pensiamo è sempre stato influenzato più dalla vista che dall’udito. Combinando sociologia, cultural studies, filosofia, antropologia, geografia urbana e musicologia, il saggio evidenzia questa rivalità, svelando invece quanto la vicenda acustica abbia inciso nella nostra esistenza. I rintocchi dei campanili dei villaggi nei comuni francesi, le processioni protestanti nell’Irlanda del nord, le dinamiche della vita d’appartamento accompagnate dai suoni della radio in Gran Bretagna, le passeggiate metropolitane con la musica in cuffia nelle città europee, le feste reggae, le manifestazioni politiche e i rituali religiosi. Dal suono evocativo delle campane di paese al chiasso stridente del traffico stradale, ciò che udiamo modifica i nostri stati d’animo e le nostre azioni. Oltretutto con l’avanzare della tecnologia, il mondo è diventato sempre più rumoroso e inquietante, e per difenderci dai rumori siamo andati alla ricerca di nuovi suoni in grado di calmarci, proteggerci e alleviarci. Esaminando i rumori della città, i suoni e le voci, il saggio assegna all’esperienza acustica un ruolo definitivo in ambito storico e sociale. L’impatto violento dei tafferugli della Belfast divisa, quello ancestrale delle cerimonie tribali fra i nativi d’America, il frastuono urbano nella Londra del Seicento, il potere ammaliante della voce dei dj, quello persuasivo dei leader politici; tutti insieme offrono inediti punti di vista su cosa significhi conoscere il mondo attraverso il suono ed invitano a pensare con le proprie orecchie. Ci suggeriscono come ogni giorno regoliamo lo spazio e il tempo tramite il suono. Perché l’orecchio è senza difese e l’uomo è sempre in ascolto.
Se dunque la concezione della vita pare essersi frantumata, non essere più riconducibile a un’immagine coerente e sollecitata piuttosto da numerose altre trame teoriche, è la riflessione attorno al presentire che orienta oggi il lavoro di molti pensatori. Essa proviene nel Novecento da opere non direttamente connesse con l’estetica; eppure necessarie, toccando l’ambito degli affetti e delle emozioni, per la ridefinizione delle attuali forme di conoscenza. Così non sorprende che il filosofo francese Peter Szendy ripercorra la disciplina della sorveglianza uditiva in “Intercettare”, uscito per Isbn, ricostruendo una sorta di archeologia dell’origliare, dalle tecnologie primitive fino ai computer, e ripercorrendone la rappresentazione artistica dalla Bibbia a Hitchcock fino a David Lynch; inclusa la citazione della magistrale messa in scena di Francis Ford Coppola ne “La conversazione”, il film sulla sorveglianza girato nel 1974 al tempo del Watergate. A metà strada tra una mistica dell’ascolto e una bizzarra fenomenologia dello spionaggio, la volontà di Szendy appare quella di nutrirsi del nesso contraddittorio tra vedere e sentire, alimentando in questa maniera l’idea della scrittura come possibilità per imparare ad ascoltare. Nel significato della sua ricerca si intrecciano un lessico di ispirazione filosofica, con una forte connotazione visiva, ed un’originale commistione di punti di osservazione. Seguendo l’esempio di Jacques Derrida, il filosofo della decostruzione che con infinita tenacia ha ripensato la problematica dell’opposizione e dell’alterità, Szendy gioca con il proprio ruolo di osservatore e testimone, all’interno dell’esterno e viceversa; non smettendo di generare doppiezza, duplicità e duplicazione e condensando semmai il passato e il futuro in un tempo che li confronta sul limite del pensiero presente. 
Il messaggio di questi libri ci dice come non si possa più giungere alle nozioni sulle quali poggia la sensibilità contemporanea esclusivamente attraverso il ragionamento e l’azione. Per molti teorici esse richiedono un sentire differente, del tutto straniante, rintracciabile in un’esteriorità più misteriosa, in una scrittura impronunziabile, in una ritualità incomprensibile, in inediti processi di comunicazione, oppure nelle vaste sfumature dell’universo femminile. La donna infatti non è il segno di un ordine stabilito ma la traccia di tutte le minoranze e di ogni possibile linea di fuga, esprimendo una volontà differente dell’agire nella vita. E’ il dialogo con lei declinato nella letteratura, nel metodo, nella psicanalisi, che fornisce alla diversità una chance, mutando la mediazione in una sperimentazione e infine in una composizione. Queste istanze, aggiungendosi a quelle già note della politica, della scienza e della comunicazione, fanno compiere al sentire una svolta. Sulla cui portata dobbiamo interrogarci, perché il significato della loro differenza le trasforma in qualcosa che ancora non sappiamo. Eppure ne avvertiamo la forza necessaria per cambiare il nostro modo di desiderare il mondo.

Vittorio Castelnuovo

lunedì 1 settembre 2008

Intervista a Philip Glass

Fino ai primi anni Ottanta Philip Glass non aveva ancora restituito la licenza di tassista, poiché essa gli forniva l’unica possibilità di guadagno. Eppure in quel periodo egli si era già affermato come il maggiore esponente della musica minimalista; la corrente che nella seconda metà dagli anni Sessanta, ispirandosi ai codici espressivi della musica orientale, aveva svelato le prospettive dell’avanguardia a frangie di appassionati provenienti dal rock. Durante il decennio successivo Glass aveva meglio definito la sua pozione, pubblicando dischi considerati di riferimento per l’orizzonte della musica contemporanea come “Einstein On The Beach”, il commento musicale dell’omonimo spettacolo teatrale di Bob Wilson, e come “Music With Changing Parts”, una delle opere che meglio esprimono il suo misterioso messaggio musicale.

Glass suonava nei giardini pubblici, nelle biblioteche e nelle sale da thé, contribuendo a quella rinascita  newyorkese che nello stesso periodo produceva le fotografie di Robert Mapplethorpe, la new-wave di Patti Smith e dei Talking Heads, i film di Martin Scorsese, creando un canone del tutto inedito per gli standard della cultura pop. Erano gli anni Settanta e New York era diventata, come forse non le era capitato neppure nel decennio precedente nonostante figure come Bob Dylan e Andy Warhol, la capitale culturale del mondo moderno.

Applicando quella duttilità che si riscontra nel lavoro di molti artisti anglosassoni, Glass ha affrontato nel corso della sua vicenda numerose esperienze (per mettere ordine nella sua immensa discografica, puntellata dalla recente ristampa del fondamentale “Music In Twelve Parts”, consigliamo la consultazione del sito www.evolutionmusic.it); incidendo albums di solo piano; dirigendo ensemble orchestrali, con i quali ha forse raggiunto i suoi risultati migliori; scrivendo brani per la performer Laurie Anderson e per il cantautore Paul Simon; producendo gruppi come i Polyrock; componendo le musiche per “Kundum” di Martin Scorsese e per la riedizione di “Dracula”, affidando le sue partiture al Kronos Quartet; collaborando con il poeta Allen Ginsberg all’allestimento di “Hydrogen Jukebox”; penetrando nella seducente dimensione dei raga  indù insieme a Ravi Shankar, e assimilando così il metodo di armonie stazionarie che sostituivano le antiche modulazioni e il contappunto appresi da ragazzo nelle scuola di Parigi di Nadia Boulanger; lavorando per il teatro curando spettacoli di estrema originalità come quelli dedicati all’artista francese Jean Cocteau; firmando un omaggio a David Bowie e Brian Eno, orchestrando i loro due classici dischi “Low” e “Heroes”, e valorizzando in questo modo la sintesi tra arte e destino così felicemente descritta dai due musicisti; infine concependo il ciclo di canzoni di “Book Of Longing” con Leonard Cohen, derivandone un disco e uno spettacolo che ha portato pure nel nostro paese.

Come diversi altri esponenti della scena statunitense - da John Coltrane a Keith Jarrett, dallo stesso Leonard Cohen fino a Wayne Shorter - anche Glass è rimasto ammaliato da quel percorso di moltiplicazione dei sensi e dei rinvii che l’Oriente espande e dissolve. Ed è all’interno di questo percorso, che la studiosa Annette Michelson ha chiamato l’ultima fermata dell’uomo nel viaggio verso la liberazione del corpo e del rinnovamento, che va individuato il senso della sua ricerca. L’unico della sua generazione che sia riuscito, partendo da un settore discografico all’epoca inesistente in termini di mercato, a diventare un’autentica vedette. E lasciando dietro di lui, almeno in termini di popolarità, artisti altrettanto bravi - c’è chi dice persino più bravi - come Steve Reich e Terry Riley.

 

Il pubblico conosce e apprezza la sua musica. In realtà c’è un aspetto della sua personalità altrettanto importante: il rapporto con la letteratura, filtrato dall’amicizia con Allen Ginsberg.

PG:  Mi fa piacere parlare di Allen, soprattutto oggi che non c’é più. Ci conoscevamo da anni, ma solo nell’ultima parte della sua vita abbiamo cominciato a lavorare insieme. E’ importante rilevare che lui aveva dieci anni più di me: quando io venni a New York lui aveva trent’anni e io ne avevo venti, e quello era il periodo in cui lui faceva i readings  nelle università e faceva anche spettacoli dal vivo. Io lo seguivo in questi spettacoli, però mi sono avvicinato a lui per lavorare insieme soltanto alcuni anni dopo. Il primo che ho conosciuto del gruppo della beat-generation è stato William Burroughs. L’ho conosciuto a Parigi nel 1965. Erano una generazione di persone un po’ più anziane di me; un gruppo di persone dedite alla letteratura, e siccome lavoravo nel campo della musica non avevamo molte occasioni di lavorare insieme.

 

Dunque la realizzazione di “Hydrogen Jukebox” rappresenta un motivo di soddisfazione.

PG: Esatto. Fui io che proposi ad Allen di mettere in musica dei brani tratti da quel lavoro. In quel periodo abitavamo nello stesso quartiere, ci vedevamo spesso, facevamo spettacoli insieme e progettavamo di fare altre cose per il futuro. L’idea base del progetto con Ginsberg era nata perché io volevo fare una specie di ritratto dell’America; apprezzavo Allen come artista ed ero convinto che fosse il migliore scrittore ad essersi occupato di problemi sociali negli ultimi trent’anni. Passammo dei mesi a leggere le sue poesie e alla fine arrivammo a selezionare circa venti componimenti. Quello che facevamo era semplicemente metterci lì a leggere poesie e, quando ne ritenevamo una particolarmente interessante, la segnavamo. Fu allora che scegliemmo alcuni argomenti come il movimento per la pace, l’ecologia, la discriminazione sessuale, la corruzione nel governo.

 

Individuando delle tracce…

PG: Sì, questi erano gli argomenti pubblici, ma c’erano anche argomenti più privati. Per esempio nella poesia “Howl!” c’erano temi pubblici, ma espressi in modo molto personale, e in generale tutti questi argomenti coprivano un periodo che andava dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta. Scrissi tutta la musica una volta che ero in Brasile e tornato in America decidemmo sul modo di metterla in scena. Si trattava di diciannove pezzi; non c’era un vero filo conduttore tra le varie canzoni, erano delle storie messe insieme. Poi andammo in tournée negli Stati Uniti e in Italia, al Festival di Spoleto. Il risultato finale del lavoro teatrale mi è piaciuto molto, ancora oggi mi piace, ma penso che sul pubblico abbia avuto un impatto troppo intellettuale. Non ha avuto per esempio quel richiamo popolare che ha avuto “La Bella e La Bestia” di Cocteau.

 

Le cose sono molto cambiate da quando ha cominciato.

PG: Sì, certo. Ho cominciato a lavorare alla fine degli anni Sessanta e allora non c’era un grande pubblico; però facevo concerti continuamente dappertutto in America, anche in gallerie d’arte o spazi per studenti di università. Non avevo mai la sensazione di essere isolato, perché suonavo ed avevo sempre del pubblico con me.

 

Ma il senso di isolamento è stato in passato un problema.

PG: Forse, trent’anni fa venni qui in Italia per la prima volta, mi esibii a Roma. Ho tanti ricordi. Se non avessi fatto il lavoro che faccio, se avessi soltanto insegnato, allora in quel caso mi sarei sentito isolato, sarebbe stato un problema. Oggi faccio in media trenta concerti all’anno; a questo punto sono circa un migliaio di concerti, non riesco più a contarli. Ho sempre avuto la sensazione che c’era un pubblico ad ascoltarmi, è diventato sempre più grande nel tempo. Durante i primi dieci anni il pubblico era composto da poche persone; fu alla fine degli anni Settanta che cominciò ad essere più numeroso.

 

Lei parla dell’isolamento pure da un altro punto di vista.

PG: Sì, è così; volevo accennare all’isolamento culturale. Negli Stati Uniti abbiamo un problema che non so se sia presente in Europa. Da una parte esiste una società di massa, e la società di massa non è assolutamente interessata all’arte. Anche quando si parla di ‘mainstream artist’ , cioé di artisti che vanno appunto con la corrente, questi spesso non rientrano in uno schema di cultura popolare. Quando si parla di cultura di massa in America si intende la televisione, gli sport e in generale gli spettacoli di intrattenimento. In America è accaduto che la cultura è diventata intrattenimento e si tende a confondere le due cose per cui il valore di un artista si basa sulla capacità: la sua capacità di intrattenere il pubblico. Questo fa perdere il valore artistico della persona, e questo sta diventando un problema internazionale, non più soltanto un problema americano. Certo l’arte dovrebbe anche intrattenere e l’opera è proprio il campo in cui arte e intrattenimento vanno di pari passo. Voi italiani appartenete ad una tradizione in cui arte e intrattenimento sono sempre andati insieme. Sono i casi appunto di Verdi, di Puccini. Però oggi arte e intrattenimento sono stati separati. Oggi l’intrattenimento si fa per soldi e l’arte è per poche persone. Chiaramente questo porta ad una situazione pericolosa.

 

Intende battersi per sconfiggere questa minaccia?

PG: Alcune delle mie opere recenti come “Juke-box all’idrogeno” o “La bella e la bestia” offrono di nuovo questo valore: arte e intrattenimento vanno di pari passo insieme. Come si può vedere ci sono molte persone giovani ad assistere ai miei spettacoli; nei prossimi anni raggiungeremo una media di novata esibizioni l’anno. Comunque bisogna dire che non tutti hanno il carattere per farlo, ci vuole una certa facilità di comunicazione con le persone e anche una dose di disponibilità. Alcuni artisti non ne hanno affatto. Tu mi hai accompagnato tante volte in giro per l’Italia; quante volte mi hai visto arrivare in una città, andare in una libreria per un incontro pubblico, suonare il piano e parlare con le persone? Tutte cose che io faccio volentieri e abbastanza spesso.

 

Nel suo comportamento si riscontra un carattere americano.

PG: Sì, ma non del tutto. Vedi, ci sono artisti che non vogliono abbandonare lo studio, ci possono essere vari motivi dietro questo atteggiamento. Magari sono stanchi o sono arrabbiati o si sentono soli, non lo so. Del resto io credo che noi artisti abbiamo una grossa responsabilità. Per esempio se guardiamo al mondo del cinema, ogni volta che un film esce, la settimana seguente sul giornale troviamo scritto quanti soldi ha fatto il film. I giornali parlano di milioni di dollari, ma non dicono assolutamente se il film è buono o no. Al pubblico che legge il giornale che cosa importa se Spielberg ha guadagnato venti o trenta milioni di dollari, l’incasso del film diventa il metro di valutazione del lavoro e questo è un modo molto pericoloso di pensare. Non si discute sul fatto che, per esempio, “Jurassic Park” era o non era un bel film, quello che importa è che ha guadagnato cento milioni e questo è pazzesco. Si arriva al punto che, se un film esce nel primo fine-settimana e non ha guadagnato abbastanza soldi, viene ritirato; e questo succede anche ai libri, ai dischi e all’arte in genere. Ripeto, è una situazione molto pericolosa. Credo che dal punto di vista culturale l’America è ancora oggi un paese molto importante. Certo io sono critico nei confronti dei vari aspetti della società americana, ma dal punto di vista artistico è sicuramente il posto migliore in cui lavorare, senz’altro uno dei paesi più aperti nei confronti delle sperimentazioni e della maggior parte delle avanguardie che vengono realizzate soprattutto là. Inoltre c’è una grande dose di energia e siccome gli artisti non prendono sovvenzioni né dal governo, né dalle grandi corporazioni, essi tendono ad essere indipendenti e, d’altra parte, l’indipendenza è un fattore fondamentale nell’arte e io trovo che gli artisti americani sono tra i più indipendenti.

 

E’ una posizione in contrasto con il polemico teorema di Gore Vidal; secondo il quale ogni artista americano, per il semplice fatto di far parte di una grande potenza, automaticamente diventa un grande artista.

PG: Per quanto riguarda la questione della grande potenza, per me la questione oggi sta in termini di lotta economica. Quello che conta veramente è il potere economico e le forze che lo rappresentano. Credo che sarebbe un errore sottovalutare la creatività, l’energia degli artisti americani. Io viaggio molto,  vedo parecchie cose e ho avuto modo di rendermi conto che noi artisti americani abbiamo una visione più indipendente della storia, non abbiamo sulle spalle il peso della storia che può avere un artista europeo. Quand’ero giovane mi sono ribellato ai modelli educativi che avevo davanti a me e questo dev’essere senz’altro più difficile per un artista europeo. Per noi artisti americani è più facile e quindi ci sono dei caratteri che trovo fantastici nell’America ed altri che trovo invece terribili. Mio figlio una volta mi ha detto, quando aveva sedici anni, parlando di New York: “Sai, babbo, New York è senz’altro il posto più bello e più tremendo del mondo”. E io gli ho risposto: “Bene, mi fa piacere che tu l’abbia capito”. Quindi, tornando al punto di prima, noi artisti non prendiamo sovvenzioni dal governo, non prendiamo più molte sovvenzioni dalle corporazioni e, d’accordo, alcuni di noi hanno soldi, circa il 30-40% degli artisti hanno i genitori ricchi.

 

Per lei invece è stata più dura.

PG:  Per quanto riguarda me io ho avuto degli ottimi genitori, ma mia madre era un’insegnate di scuola, quindi non avevamo molti soldi, perciò la maggior parte di noi doveva lavorare ed io, ad esempio, fino ai quarant’anni ho fatto dei lavori saltuari. Ho spostato mobili, ho guidato taxi, ho lavorato nei cantieri edili, e questa è una cosa molto normale per noi. Quindi dovevo scrivere la musica di notte, ma era una cosa abbastanza normale: quando a New York si va in un ristorante ci sono buone possibilità che il cameriere che ci sta servendo sia uno scrittore o un attore.

 

Questa indipendenza ha dunque un risvolto economico.

PG: Infatti. Per esempio quando ho fatto “La bella e la bestia” l’ho finanziata da solo, facendo concerti. Non ho avuto denaro da nessuno; il denaro è venuto da fonti diverse, dai soldi che ho preso per i concerti di piano, dalla casa discografica quando ho inciso il disco dell’opera. Inoltre avevo ancora denaro che mi era avanzato dalla tournée precedente. Quando si può contare solo sulle proprie forze, si prende il proprio lavoro con grande impegno e con grande dedizione. Coloro che non hanno l’impegno sufficiente per ricorrere alle proprie risorse e che non prendono il loro lavoro con grande dedizione, non hanno abbastanza energia, hanno chiuso, sono finiti. Le cose stanno così, non c’è più niente da fare. Il vantaggio di essere così indipendenti è che si può criticare chiunque, perché nessuno mi ha dato niente in fondo.

 

Come è cambiata la scena musicale in tutto questo tempo?

PG: Fra gli artisti minimalisti c’è stata una certa coesione fino alla metà degli anni Settanta. Oggi c’è molta più diversità e comunque la musica, le tendenze musicali, tornano ad orientarsi verso l’esplorazione della tonalità e comunicazione con il pubblico. I compositori dodecafonici degli anni Sessanta non erano interessati a queste cose; mentre la mia generazione ha mostrato più interesse per questi atteggiamenti. E in generale anche adesso sono più interessati al pubblico, a trovare un linguaggio comune, un linguaggio che comunque riesca a valutare la tonalità della musica, il linguaggio tonale. Tra i nuovi compositori c’è un grande interesse per l’improvvisazione. Ed esiste una generazione di compositori che sono interessati per esempio al jazz. Penso a John Zorn o a Bill Frisell.

 

Che sono effettivamente molto bravi…

PG: Il linguaggio dei compositori che adesso sono fra i trenta e i quarant’anni è completamente diverso dal mio e tra di loro ci sono dei tipi veramente interessati. Questa generazione ha delle grandi potenzialità, come appunto John Zorn o Bill Frisell. Faccio solo dei nomi, perché sono diversi da noi, però quello che è interessante è che c’è un bel rapporto tra le nostre generazioni. Loro vengono ai miei concerti ed io vado ai loro e ci sono sempre molte cose di cui parliamo; ci sono argomenti come le compagnie discografiche, le compagnie teatrali o i giornalisti che incontriamo: non ci mancano mai gli argomenti da trattare.

 

Lo scenario è cambiato rispetto a prima.

PG: La sensazione è che ai nuovi compositori non importi più tanto della musica minimalista, credo che la cosa più importante adesso sia la nascita del teatro musicale, l’emergere di un nuovo genere nel teatro musicale. Gli elementi interessanti che connotano le tendenze musicali attuali sono l’improvvisazione e l’integrazione tra arte popolare e arte musicale. Altri elementi interessanti sono gli esperimenti con le nuove tecnologie.

 

Anche in questo che lei dice c’è un carattere americano.

PG: Da ragazzo ho lavorato in un negozio di dischi, avevo dodici anni. Il proprietario del negozio era mio padre. Ascoltavo di tutto, dalla musica classica al genere popolare, non il rock, perché allora non esisteva ancora: ricordo bene quando alla metà degli anni Cinquanta uscirono i primi dischi di Presley, mi ricordo quando li vendevo ed ero curioso di sapere che roba era quella che la gente stava comprando. Poi più tardi a New York c’era un ambiente molto fluido musicalmente; ho sentito tanti concerti dal vivo. Ho sentito Billie Holliday, Ben Webster e, più tardi, sono andato a sentire John Coltrane e Bill Evans. Anche se poi ho scritto un genere diverso, quando mi sono messo a comporre musica, la musica jazz faceva parte del mio mondo.

 

Di fatto lei appartiene all’arte contemporanea.

PG: E’ così, ci sono tanti musicisti pop che mi hanno chiesto di aiutarli. Ci sono per esempio vari musicisti che non riescono a comporre la musica, io li ho sempre aiutati, mi piaceva aiutarli e così è stato anche un modo per conoscere la loro musica. Tempo fa ho lavorato con Marisa Monte e in genere sono questi musicisti che mi chiamano al telefono e mi chiedono: “Philip, puoi darci una mano?”. E in genere non dico mai di no. In media non ho più collaborato con un artista all’anno, ma col passare degli anni ho conosciuto tantissimi artisti. Ho lavorato con Paul Simon, con David Bowie, perciò adesso, quando guardo al mondo della musica, esso non mi pare solo popolato da cantanti, da pianisti o da direttori d’orchestra, ma so che ci sono anche altri compositori. Per cui ho una visione allargata del mondo della musica e mi succede che quando vado in un club o entro in uno studio musicale non mi sento mai un estraneo. E questo mi piace.

 

Per molti ascoltatori la sua musica conserva un’anima malinconica. Avverti anche lei questa sfumatura?

PG: Ci sono altre persone che mi hanno detto questa cosa o che si chiedono come mai io sembri una persona così felice e la mia musica suoni invece così triste. Ma la tristezza dipende anche dai temi che io scelgo. Del resto sono io che scelgo gli argomenti della musica; bisogna osservare che quando un artista ha raggiunto il pieno controllo dei propri mezzi e ha, per così dire, imparato il mestiere, insomma ha raggiunto la piena maturità, a quel punto l’arte diventa soltanto un riflesso dell’artista.

 

Lei è un uomo molto pratico. Ricorda una battuta di David Bowie: «Quando una cosa funziona, buttala».

PG: Non sapevo che David Bowie avesse detto una cosa del genere e comunque sono d’accordo. Anch’io sono delle opinione che quando qualcosa funziona non andrebbe mai ripetuta. Per esempio “Einstein on the beach” era un pezzo molto famoso, ma non ho mai voluto ripeterlo. A volte mi sono detto che non mi dispiacerebbe ripetere i miei insuccessi, ma non ripeterei mai i miei successi. Non ho molta fedeltà verso me stesso. A volte dico che il primo problema che ha un compositore è quello di trovare una voce e il secondo è quello di sbarazzarsene. Più avanti si va con gli anni e più lavoro si ha e il problema diventa sempre più grosso. In realtà io non cerco un’identità, ma semmai il contrario. Il risultato finale però è trovare la propria identità. E funziona proprio così: più si sfugge a se stessi e più si trova se stessi. Non so come spiegarlo, è un paradosso, ma è così.

 

Le piace la scena culturale attuale?

PG: Prima di tutto direi che la cultura, e se per cultura intendiamo la scrittura, la musica, la pittura, le arti visive, per essere viva deve continuare a rinnovarsi. Quando noi guardiamo alla cultura contemporanea, questo è quello che accade: è una cultura in evoluzione ed è una forma di espressione che cerca di parlare il linguaggio del mondo in cui viviamo oggi. Quegli artisti che riescono a portare elementi di freschezza e novità all’interno di questo mondo sono molto preziosi per noi. E possono venire da qualsiasi luogo, possono essere i Beatles, Dylan o John Cage, e immediatamente dire qualcosa che è incredibile, così potente che ci abbraccia. Non è sempre vero che subito ci lasciamo affascinare: mi ricordo che, quando ero giovane e vidi per la prima volta il lavoro di Jackson Pollack, ne rimasi davvero scioccato. Lo stesso accadde per Allen Ginsberg. Rimasi scioccato, ma era anche molto chiaro che quella gente stava parlando con una voce che era davvero molto autentica. E lo shock è importante per noi, perché è un modo di svegliarci rispetto al mondo nel quale stiamo vivendo.

 

Qual’è la dote più importante per un artista: la curiosità?

PG: Sicuramente la curiosità è importante, ma c’è una cosa che è ancora più importante ed è l’onestà, l’onestà dell’artista che dice le cose nelle quali realmente crede, anche nei casi in cui lo stesso artista sia esso stesso sorpreso di ciò che ha fatto. E allora arriviamo all’idea di coraggio. Abbiamo raggiunto i tre punti che sono: la curiosità, l’onestà e il coraggio, i tre elementi importanti, i tre cardini del processo creativo. E non sono gli unici, ve ne sono altri. E’ interessante vedere comunque come si passi attraverso questi tre elementi che sono comuni ad esempio a Pollock, alle prime cose di Dylan o John Cage, persone che apprezzo e stimo.

 

Infatti li menziona spesso.

PG: Il motivo principale per cui ho scritto opere come “Eknathon”, “Gandhi” o “Einstein on the beach” era l’aver individuato dei personaggi che hanno cambiato il mondo in modo pacifico e che soprattutto hanno cambiato il mondo attraverso le idee. Così John Cage. Io amo molto il suo lavoro, l’ho conosciuto di persona. Quello che lui ha insegnato è guardare la musica anche stando in un auditorium in una maniera diversa. E questo sicuramente rimarrà anche se continueranno ad esserci gli auditorium e gli organizzatori di concerti. Molti mi chiedono dove ho preso le idee per queste tre opere. E’ stato raccontare un pezzo della mia vita e come queste tre opere appartengano fortemente alla mia vita.

 

Oggi che definizione darebbe del suo lavoro?

PG: Il linguaggio che mi è più consono è quello della musica. Ciò nonostante il parlare della musica mi rende felice, perché è un modo per dare un contributo al nostro modo di vivere. La musica è un elemento importante della nostra vita e può renderla decisamente più ricca. Anche il parlarne può essere utile. Il significato dell’arte è prendere elementi dal quotidiano e trasferirli in qualcosa che non lo è, cioè in un aspetto creativo, fantastico. In questo mi riconosco in quanto artista. Se penso alla mia musica, la vedo come una musica che prende elementi etnici provenienti da altri paesi e mondi, ma anche attenta all’impatto che la tecnologia ha sul mondo di oggi e sulla composizione della musica stessa. Il tentativo è quello di guardarsi attorno e di scrivere della musica che racconti del mio mondo, di quello in cui vivo e che sappia essere elemento di comunicazione, come una sorta di lente attraverso la quale descrivere ciò che mi circonda. Per me la musica è un elemento della comunicazione.

Vittorio Castelnuovo