martedì 15 luglio 2008

"GLI AMERICANI" - Robert Frank

Intervistato recentemente riguardo la possibile distribuzione di “Cocksucker Blues”, il film di Robert Frank che documenta il tour dei Rolling Stones negli Usa del 1972, Mick Jagger ha dichiarato che non gli dispiacerebbe. Del resto è il momento giusto, considerando il rinnovato interesse verso la filmografia degli Stones. Un’icona pop prima poco considerata - all’appello manca “Ladies and Gentleman The Rolling Stones”, film concerto del 1974, ma è solo questione di tempo - ora invece vista come fulgida testimonianza di un’epoca, forse persino necessaria per alimentare le ricorrenti ondate del revival. Da “Shine A Light” di Martin Scorsese, che nel frattempo ha rinunciato al biopic su Bob Marley ed è stato rimpiazzato da Jonathan Demme; a “Rolling Like A Stone” degli svedesi Stefan Berg e Magnus Gertten, che ha aperto l’ultima edizione del festival internazionale Corto in Bra, raccontando la storia di un gruppo di fan e musicisti locali che nel 1965, durante un tour del gruppo in Svezia, dettero vita ad una festa privata durata tre giorni (!); fino  a “Charlie Is My Darling”, resoconto di un piccolo tour in Irlanda nel 1966, girato in bianco e nero con una cinepresa in 16mm Eclair e un registratore audio Nagra da Peter Whitehead, e programmato nell’ultima edizione del Bellaria Film Festival; contemporaneamente la pubblicazione per Derive Approdi di “Cinema, musica, rivoluzione”, dove le curatrici Laura Buffoni e Cristia Piccino ripercorrono la carriera del celebre documentarista. 

Ma fu per volontà dello stesso Jagger che all’epoca “Cocksucker Blues” non raggiunse le sale; dopo la sconcertante proiezione privata avvenuta a Londra in un cinemimo di Soho, dalla quale erano state preventivamente escluse le mogli per via delle numerose scappatelle avvenute tra uno spettacolo e l’altro. Però le immagini non documentarono tanto le avventurette dei membri del gruppo, quanto la loro solitudine e più in generale una decadente mancanza di significato. Viste adesso che il rock ha perduto quello stato di felicità e di potere soprannaturale che esprimeva un tempo, esse provocano una riflessione su cosa abbia significato l’esperienza della musica giovanile negli anni Sessanta e Settanta; quando in molti erano disposti a tutto, convinti che la forza d’urto provocata da quel suono avrebbe davvero cambiato il mondo, lo statuto della realtà e il limite della morte.

Ancora sufficientemente vicini ai fermenti della cultura non omologata -  vedi la decisione di affidare la regia del precedente film “Gimmie Shelter” ai fratelli Albert e David Maysles; fautori del Direct Cinema e poco tempo fa protagonisti di una bella pubblicazione retrospettiva, “A Maysles Scrapbook”, corredata da una prefazione di Martin Scorsese - gli Stones erano entrati in contatto con Robert Frank a cavallo di quei due decenni ma è probabile ne conoscessero da prima la reputazione. Franck era sbarcato nel 1947 a New York, proveniente dalla Svizzera, e nel 1959 aveva realizzato “Pull My Daisy”, il primo dei suoi film sperimentali. Girato nell’appartamento di Alfred Leslie con Allen Ginsberg, Peter Orlovsky e Gregory Corso che improvvisavano dal vivo - mentre un deluso Jack Kerouac dovette più volte ricominciare da capo il suo intervento, finendo col rimproverare alla pellicola una certa mancanza di spontaneità - il film prendeva spunto da un verso dall’autore di “On The Road” pieno di sottointesi erotici: l’espressione pull my daisy evoca infatti l’ultimo atto dello strip-tease prima della nudità completa. In particolare l’amicizia tra Franck e Kerouac fu rinsaldata da un altro progetto: un libro di fotografie, pubblicato lo stesso anno, dove si visualizzava il fallimento del Sogno Americano. Il volume si intitolava “The Americans” e finì, molti anni dopo, nelle mani degli Stones. Fu in margine a questo episodio che nacque la copertina di “Exile On Main Street”, uno dei dischi più belli del rock: the definitive road album, il vero album da strada, secondo la pittoresca definizione che ne diede Barbara Charone. Di fatto il libro di Robert Frank anticipava il racconto melodico degli Stones; svelando le violenze sorde, le voci soffocate e le solitudini tragiche di un paese svuotato di senso e in cui in fondo la strada rimaneva, nel tempo e nello spazio, l’unica realtà tangibile.

“The Americans” si allontanava dal sole dell’Eden americano e andava piuttosto all’interno della grande nazione, mostrandone il volto controverso e tracciando un impressionante carattere antropologico. Senza averne l’intenzione l’album era la trasposizione visiva di “And Keep Your Powder Dry. An Anthropologist Looks At America”, il saggio scritto nel 1944 da Margaret Maed (in Italia da poco ristampato per i tipi de  Il Saggiatore) dove l’autrice si addentrava nelle viscere del popolo americano, riconducendolo con estrema lucidità alla propria origine: la smania di superare la condizione economica e sociale di partenza, la competizione inculcata in famiglia sin da bambini, lo sforzo e l’impegno come stili di vita, la ricompensa pensata in termini di ricchezza e successo, l’ottimismo esasperato, l’audacia, la fiducia in sé e nella propria missione civilizzatrice. Contro questo stato di cose, nel corso del tempo, gli artisti si sono battuti per creare un necessario spazio di pensiero; e per Robert Frank quel periodo ed i suoi protagonisti furono, come successivamente ebbe a dichiarare, «l’inizio di un’infinità di cose». Sia lui che Allen Ginsberg rammentarono per esempio l’impatto provocato nel 1952 dall’antologia discografica “American Folk Music”; messa a punto da Harry Smith, dove questi dava fondo al suo amore per il collezionismo - dalle uova di Pasqua agli aeroplanini di carta fino ai giochi di corda - applicandolo tuttavia a quel vasto passato americano, rimasto fino a quel momento inesplorato perché impossibile da ascoltare e immaginare. A cinquant’anni di distanza dalla prima edizione, stampata dal francese Robert Delpire in fotocalcografia e con una copertina disegnata da Saul Steinberg, “The Americans” ci fa riflettere sulla nascita di questa epopea moderna; di come cioè i protagonisti del movimento beat, nel drastico rifiuto del consumismo e nell’assunzione di un impegno pacifista ed ecologico, furono all’origine  di un’ondata generale di contestazione, gettando le basi della cultura contemporanea. Robert Frank è stato uno dei pochi fotografi che capì la Beat Generation e vi si integrò, e i suoi scatti ci ricordano pure come da troppo tempo abbiamo disimparato a pensare l’utopia.

Vittorio Castelnuovo