sabato 5 luglio 2008

Su Enrico Pierannunzi

Attivo dagli anni Settanta ed approdato recentemente  all’etichetta Cam, con la quale ha inciso dischi di diseguale valore, il musicista Enrico Pieranunzi, che sta al jazz come il suo mentore Giorgio Manganelli stava alla letteratura, ha realizzato un disco (“Enrico Pieranunzi plays Domenico Scalatti”) che formalmente mette insieme il gusto dell’improvvisazione, tipico della matrice afro-americana dalla quale egli proviene, con quello della tradizione cameristica, cui appartiene invece il clavicembalista Domenico Scarlatti. Figlio d’arte di Alessandro Scarlatti - proprio come Enrico, ricordando il papà Alvaro, bravissimo chitarrista - Domenico nacque a Napoli nel 1685 e morì a Madrid nel 1757; compiendo un tragitto simile a quello di Luigi Boccherini, l’altro schietto rappresentante del Settecento strumentale italiano, che venne al mondo a Lucca nel 1743 e si spense sempre a Madrid nel 1805. Dietro una logica musicale incalzante ed una serenità quasi pastorale, dove venivano adunate tutte le grazie del secolo di appartenenza, nella sua musica Scarlatti anticipava ed educava il tempo con improvvise forme di malinconia, secondo una dolente ed incessante esplorazione che trova riscontro nella parabola contemporanea del pianista romano.

            Sono stati numerosi gli esperimenti effettuati per accostare i due modi, giustapponendoli spesso con effetti suggestivi; pure rammentandone i risultati discontinui, è opportuno citare per esempio il lavoro del brasiliano Uri Caine, multiforme e contraddittoria figura di agitatore musicale perfetta per i palinsesti attuali. Ma nell’album di Pieranunzi, lungo il canale sotterraneo individuato quasi attraverso una fedeltà all’enigma del passato e grazie al quale le due esperienze sono messe sullo stesso piano arrivando a formare un unico racconto melodico, c’è qualcosa di differente. C’è una poetica che ripensa il paesaggio mentale, combinando musica e significato ed individuando un’espressione ancora innominata, un incanto ancora inedito per gli standards cui siamo abituati: l’illusione di aver trovato il segreto, la luce che rispetta la nostalgia dell’ombra, cose che sentono e che fanno compiere al sentire una svolta.

            Con l’ausilio del solo pianoforte; chiamando a sé sia le mezze ombre della cultura indio-europea, con le quali egli continua fare i conti, che il desiderio e gli inganni dell’immaginario occidentale; non dando mai per acquisito il linguaggio jazzistico; con infinita tenacia Enrico Pieranunzi, uno dei pochi musicisti italiani realmente importanti, ribadisce come la via diretta gli sia preclusa. Affermando, pure nel bisogno di essere ascoltato, la propria diversità pure rispetto all’arte, e celebrando l’avvento della differenza.

Vittorio Castelnuovo