sabato 24 maggio 2008

Les années Stones

Con comprensibile soddisfazione Ziggy Marley ha annunciato che Martin Scorsese dedicherà un documentario alla memoria del padre Bob, leggenda della musica reggae. Al momento non c’è ancora un titolo ma l’uscita è prevista per il 65° anniversario della sua nascita, il 6 febbraio 2010. Ziggy, che è tra i produttori esecutivi della pellicola finanziata dalla Tuff Gong Pictures e dalla Shangri-La Entertainment, ha dichiarato: «Sono entusiasta di questo progetto su di lui. Finalmente la mia famiglia avrà l’opportunità di documentare la sua eredità. Sono onorato che sia nelle mani di Scorsese». Nel frattempo il regista prepara un film su George Harrison. «Ma non centra con i Beatles - ha commentato - è solo su di lui. Mi attrae il suo percorso esistenziale, la sua ricerca di spiritualità, la lotta contro i lati oscuri del suo temperamento. Ne parlerò soprattutto per descrivere la sua ricerca spirituale, il fatto che per lui la musica rappresentasse un mezzo per indagare quel lato della personalità. Il film documenterà la battaglia interiore, la tensione verso qualcosa di più alto. Spero di riuscire a cogliere il senso di tutto questo». E’ probabile Scorsese sia rimasto suggestionato dalla dolente versione di “While My Guitar Gently Weeps”; la canzone ispirata dal Libro dei Mutamenti cinese, conosciuto come I Ching, e contenuta nella “Anthology 3” dei Beatles, con dentro quei versi in seguito eliminati dove Harrison canta di non fare altro che invecchiare, finendo con l’assistere a un dramma.

Intanto nell’ultima edizione del Festival Internazionale di Marrakech, nell’enorme piazza di Jemaa El Fna trasformata in un palcoscenico, il regista ha presentato “Transes”; una pellicola girata nel 1981 da Ahmed El Maanouni, appena restaurata grazie all’impegno della World Cinema Foundation e dedicata alla storia di cinque musicisti arabi che negli anni Settanta decisero di rompere con la tradizione musicale della loro terra. Scorsese ha riflettuto come la vicenda, in fondo, non sia tanto lontana da quella del film sui Rolling Stones. Poi si è lasciato andare ai ricordi personali e a quello che fu il suo primo incontro col Marocco: «Era il 1983. Ero venuto per i sopralluoghi di “The Last Temptation Of Christ”. Ma il film fu cancellato e dovetti aspettare quattro anni per farlo. Fu girato nei dintorni di Marrakech, con molta gente del luogo; ed era influenzato da Rossellini, Olmi e Pasolini». Sembrava l’inizio di qualcosa, come svelò l’affresco sonoro di Peter Gabriel, il quale cercò di costruire un ponte tra le cose nella bella colonna sonora del film; che dietro la storia della tragedia del fallimento umano dell’essenza divina, ricorreva ad un affascinate opera di fusione etno rock, impossibile da piazzare nei vecchi palinsesti musicali. Scorsese poi ha raggiunto il Mali. «Voglio conoscere meglio il cinema e la musica africana», ha affermato. Mentre girava pochi anni fa il documentario “Feel like going home” - inserito nell’ambizioso progetto “The Blues”, condiviso con altri registi come Clint Eastwood, Mike Figgis e Wim Wenders - il regista ha vissuto l’incanto di scoprire un linguaggio sonoro che a miglia di distanza crea un misterioso gioco di immedesimazione; stabilendo così un legame profondo tra persone e fatti lontani e consentendo di assimilare piano piano il respiro frammentario ma avvolgente di uno stato d’animo quasi visionario, che porta ad un progressivo distacco dalla realtà in un meravioglioso esercizio di stile, in cui le storie si comprimono in una sola voce. Nel film egli racconta il passaggio dall’universo sonoro del continente africano alla musica popolare urbana americana, restituendone il fascino attraverso l’originale percorso a ritroso compiuto dal musicista Corey Harris.

Ma fu il povero Brian Jones il primo, almeno di quella generazione che fece di tutto per individuare il passaggio da una posizione di fede a una posizione di scetticismo, a provare l’itinerario verso l'utopia, alla fine degli anni Sessanta e al di là dei confini dell'Occidente industriale. Prima di lui solo Art Blakey, il batterista fondatore dei Jazz Messengers, il quale coltivò a lungo l’idea di capeggiare complessi di sole percussioni, per riaffermare la volontà di recuperare il legame culturale con l’Africa. Proiettato in una zona ideale e senza tempo, che comunemente viene chiamiata preistoria, Jones affrontò il fascino e la paura, le due compagne di viaggio di ogni percorso verso le origini. Forse influenzato dai racconti di Allen Ginsberg e William Burroughs, oppure dal fatto che ci vivesse Paul Bowles, o forse perché gli era giunta all’orecchio la battuta di Jean Genet nel Diario del ladro che la vedeva come il simbolo del tradimento, decise di recarsi a Tangeri. E poi, con il compagno di viaggio Brion Gysin - pittore visionario e nume tutelare dei beatnicks, che sarebbe morto anch’esso prematuramente nel 1986 a Parigi; dopo essere stato nei primi anni Sessanta uno dei più inquieti inquilini del Beat Hotel, sulla Riva Sinistra della città, inventando i primi spettacoli di luci e di proiezioni corporee multimediali e precedendo le luci psichedeliche dei concerti pop - Jones decise di spingersi ancora più in là, nei pressi di una località chiamata Joujouka. Dove i musicisti locali avevano catturato la sua immaginazione con le loro melodie ancestrali e i loro ritmi ipnotici. Jones non fece in tempo a vedere finalmente apprezzato il suo talento; ma il suo album “Joujouka”, pubblicato postumo nel 1971, anticipò di almeno un decennio l’interesse etnico da parte degli uomini del rock. L’ex leader degli Stones ribaltò l’dea del deserto come scenario della morte dell’Occidente, dove tutte le energie intellettuali vanno ad esaurirsi; e perseguì invece gli insegnamenti della tradizione ebraica, che considera il deserto come luogo del viaggio verso il futuro. Non la zona della fine ma l’inizio di una nuova partenza. Brian Jones aveva vissuto metà della sua vita ed aveva gettato via il resto. Aveva ottenuto molto, ma aveva perduto tutto. Nel deserto africano si sentì un uomo solo ma felice: un cercatore d’infinito. E per l’ultima volta avvertì un grande bisogno di bellezza, nel crepuscolo della propria autodistruzione. Aveva assunto droghe fino a fargli dimenticare di essere, e cominciò ad accorgersi come nella vita di un uomo l’ultimo ad andarsene era sempre il dolore. Jones sapeva che la droga non era un risarcimento dell’amore; ma qualcosa che dava ciò che l’amore, almeno per lui, non era più in grado di dare.

Quattro anni dopo, nel 1973, arrivò la prima significativa affermazione di Martin Scorsese con “Mean Streets”, il cui sottotitolo in italiano recitava Domenica in chiesa Lunedì all’inferno. Scorsese aveva scritto il soggetto nel 1966, ispirato a “I Vitelloni” di Federico Fellini, e in seguito la sceneggiatura. Il film rivelò il talento di Robert De Niro, che Scorsese aveva conosciuto tempo prima tramite Brian De Palma, e rappresentò il primo accurato approccio con le tematiche religiose ed esistenziali determinanti per la definizione della sua estetica. L’utilizzo inedito delle canzoni pop e quello altrettanto incisivo che il regista fece dei classici popolari italiani, da Giuseppe Di Stefano a Renato Carosone, manifestando così l’importanza che le tradizioni lirica e leggera avevano per la comunità italoamericana, assegnarono un tratto quasi operistico al film. Ma la ragione del successo di “Mean Streets” risiedeva nelle circostanze della sua produzione e nel retroterra culturale del regista: il denominatore comune era la musica rock. Scorsese aveva trovato i finanziamenti per realizzare il film contattando Jonathan T. Taplin, che era stato il manager di Bob Dylan e della Band. E aveva impostato il lavoro giocando sulla simultaneità dello sviluppo della storia e della colonna sonora. La partecipazione in parecchi film musicali - tra cui l’aiutoregia e la supervisione al montaggio di “Woodstock”, con il suo vecchio compagno di università Michael Wadleigh, e la pellicola “Elvis On Tour”, realizzata l’anno prima con Pierre Adidge e Robert Abel - testimoniava della sua esperienza professionale nel mondo della musica. Ma era stata soprattutto la capacità che Scorsese dimostrava nel rievocare il clima della musica rock del periodo - con una scelta che includeva le Ronettes, Johnny Ace e Eric Clapton - e il suo potere di influenzare la vita e il modo di comportarsi della gente, che aveva fatto di “Mean Streets” una sfida molto eccitante sia per il suo autore, sia per la Warner Brothers. Nel film la musica ricopre la stessa importanza degli altri elementi della messa in scena come l’illuminazione, i movimenti della camera e la disposizione degli attori. Scorsese arrivò addirittura a far durare il tempo di una sequenza, quella della rissa nella sala da biliardo, esattamente quanto “Please, Mr. Postman” delle Marvelettes. Filmò l’azione mediante un rapido susseguirsi di primi piani, vertiginosi cambiamenti dell’angolo di ripresa e movimenti a mano della macchina da presa che seguiva gli attori in tutto l’ambiente, ricalcando il ritmo della canzone. Un’altra scena riuscita fu quella in cui il personaggio di Johnny Boy, interpretato da De Niro, entra in un locale notturno sotto lo sguardo severo del protagonista Charlie, a cui prestava il volto Harvey Keitel. L’intensità dell’espressione assunta da quest’ultimo contrapposta alla disinvoltura di De Niro, la presenza femminile, il brusio del club, le luci, l’uso del ralenti e la luciferina canzone “Jumpin’ Jack Flash” dei Rolling Stones, fecero della sequenza una delle più significative della cinematografia americana degli anni Settanta.

Un anno prima questi avvenimenti Scorsese, come del resto molti altri americani, era rimasto impressionato dalla vicenda di Arthur Bremer, il mancato assassino del governatore George Wallace. Bremer volevo colpire l’uomo politico in uno shopping center del Maryland, pochi giorni prima l’inizio del tour del ’72 dei Rolling Stones, quello promozionale di “Exile On Main Street”. Così la vicenda finì col traumatizzare pure Mick Jagger, ancora scosso per la violenza che aveva segnato la precedente apparizione del gruppo in America, nell’inverno del 1969, culminata nell’uccisione di uno spettatore durante un concerto ad Altmont, in California, ed enfatizzata nelle foto di Bill Owens e soprattutto dalle immagini di “Gimme Shelter”; il film realizzato dai fratelli Albert e David Maysles e da Charlotte Zwerin che - nonostante le dure critiche di Pauline Kael sul New Yorker, che accusò i filmakers di creare i presupposti per azioni violente, arrivando a paragonare la registrazione di Altmont a quella di “Triumph des Willem”, la pellicola nazista del 1934 di Leni Riefenstttahl - esprimeva invece come la musica potesse esercitare un influsso determinante su certe linee d’azione, accennando alla possibilità del distacco dall’esperienza e dalle responsabilità comuni. «Mi chiesero di suonare ad un free show e lo feci - rilevò lucidamente Jorma Kaukonen dei Jefferson Airplane - ma dopo il nostro fiasco tornai a casa in autostop. Altmont si pose come un marchio nero sulla visione utopistica del rock e del tempo». Un episodio tornato di attualità dopo che la Bbc ha rivelato di essere venuta a conoscenza, mentre andava raccogliendo materiale per un documentario sui cent’anni dell’Fbi, di un complotto ordito dagli Hells Angels, la combutta di motociclisti e fuorilegge fondata nel 1948 in California, per eliminare Mick Jagger. La tesi è stata suffragata da Mark Young, un ex agente dell’agenzia che ha dichiarato come gli Angels - in quel periodo nel mirino del capo dell’agenzia Edgar Hoover, nell’ambito delle indagini su possibili gruppi sovversivi - avessero deciso di assassinare il cantante nella sua villa degli Hamptons a Long Island, vicino New York, e che intendevano farlo entrando nella residenza dal mare, solo che una burrasca mandò all’aria sia la loro imbarcazione che l’intero piano criminale. Gli Hells Angels volevano ammazzare Jagger per vendicarsi, dopo che questi aveva stabilito di non servirsi più di loro come security per i concerti. Una decisione presa all’indomani dell’incrimanazione di Alan Passaro; uno degli addetti alla sicurezza, raccomandati agli Stones da Jerry Garcia dei Grateful Dead, accusato di aver pugnalato alla schiena un ragazzo di colore, Meredith Hunter, durante un violento alterco scoppiato a pochi metri dal palco mentre gli Stones, solo in parte consapevoli di quanto stava accadendo, interrompevano “Under My Thumb”, la canzone incentrata sul tema della lotta tra i sessi e quindi della lotta di classe. Passaro fu assolto per legittima difesa ma agli occhi di Jagger egli restava, come tutti gli altri accoliti, colpevole e non volle più saperne niente della loro sedicente organizzazione. Fu allora che gli Hells Angels decisero di fargliela pagare. Un’eco macabra che si estese fino al 1980, quando all’indomani dell’uccisione di John Lennon il Village Voice uscì infelicemente con un titolo che fece scandalo: Perché non hanno ucciso Mick Jagger?

Nei giorni dell’american purgatorio Arthur Bremer scrisse in carcere un diario di pregevole fattura, il cui contenuto colpì sia Scorsese che lo sceneggiatore Paul Schrader, che era nato nello stato del Michigan nel 1946 e nei desideri della sua famiglia sarebbe dovuto diventare un Ministro della Chiesa. Pur essendosi avvicinato tardi alla professione Schrader si era guadagnato una solida reputazione di scrittore e saggista ed aveva pubblicato, proprio nel 1972, un testo ritenuto fondamentale nel panorama della critica specializzata e intitolato “Trascendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer”, dove teorizzava una suggestiva combinazione tra l’insegnamento delle filosofie e delle religioni orientali con il potere del cinema di dare attraverso le ombre e le luci un senso di realtà, capace di superare i limiti dello spettacolo e diventare gran teatro del mondo. Fu sulla figura di Arthur Bremer che Schrader modellò il personaggio di Travis, poi recitato da Bob De Niro in “Taxi Driver”, il capolavoro di Martin Scorsese.

«Sono andato a vedere i Rolling Stones - ha affermato il regista italoamericano - e davanti a quell’immenso spettacolo ho deciso che dovevo fare assolutamente un film su di loro. “Shine A Light” mi ha così coinvolto che mi sono occupato poco dell’edizione finale di “The Departed”. Mi sono anche reso conto che non poteva essere la semplice ripresa dello show, già trasmesso centinaia di volte. Volevo qualcosa di più intimo, di più ravvicinato. Il gruppo ha acconsentito a esibirsi apposta per me, una gioia enorme. Ne è venuto fuori un film in cui la storia è la loro performance, le loro facce, il loro modo di guardarsi mentre suonano e cantano, la sensazione precisa che non desiderino altro dalla vita che fare quello che fanno. C’è un breve documentario che ripercorre la prima carriera; il resto è tutto sulla musica, sulla fisicità di Mick Jagger, sulle loro facce. Mai un’inquadratura sul pubblico, un po’ sullo stile di “The Last Waltz” che feci nel 1976».

Il 25 Novembre del 1976, durante il Thanksgiving Day, era stato organizzato alla Winterland Arena di San Francisco il concerto d’addio di The Band. Il gruppo guidato da Robbie Robertson - successivo assistente di Scorsese - apprezzato dagli appassionati sia per la proficua collaborazione con Bob Dylan, che per la qualità della propria discografia, caratterizzata da un preciso senso della direzione artistica. Il regista impiegò due settimane per girare “L’ultimo valzer”, ma l’idea era stata messa in moto molto tempo prima. Fu significativo che il lungo addio della Band avvenne nel Giorno del Ringraziamento; la musica e le parole del complesso affondavano infatti le loro radici nella ricca tradizione rurale del Paese, fornendo una nuova intonazione ai motivi del folclore musicale. Essere contattato da uno dei più importanti gruppi rock fu per Scorsese un’enorme soddisfazione, ed egli manifestò chiaramente questo stato d’animo: «La musica è la mia vita. Quando mi hanno proposto di filmare il concerto del Winterland, non ho esitato un secondo. L’occasione era semplicemente irresistibile. Sono sempre stato uno dei loro fan; non mi sono mai stancato di ascoltare i loro dischi. E non credo che questo concerto sia una fine. La fine di un’epoca forse, ma non quella del rock. The Last Waltz non è un’elegia. Non c’è tristezza». Più tardi, in occasione della presentazione fuori concorso del film al Festival di Cannes del 1978, Scorsese ebbe modo di ribadire il significato del suo lavoro: «Questo film è l’occasione per me di esprimere i miei sentimenti verso la musica che, all’infuori delle donne e del cinema, è ciò che conta di più per me. Non ho voluto realizzare un classico film musicale. Ciò che mi interessava era descrivere l’intensità che regna tra i musicisti, e non le reazioni del pubblico. E’ il solo dei miei film che posso vedere e rivedere senza stancarmi».

Scorsese decise di girare “The Last Waltz” come documentario e non come film di genere, rinunciando a riprendere il pubblico e preferendo invece esplorare la personalità dei musicisti e il loro racconto melodico. Robbie Robertson rievocò come ebbe inizio l’attività con il cantante Ronnie Hawkins, come girassero pochi soldi e come ogni tanto fossero costretti a qualche furtarello nei supermarket; Levon Helm ricordò invece la sera in cui erano andati a casa del bluesman Sonny Boy Williamson, comunicandogli tutta la loro ammirazione dato che lo consideravano il loro padre spirituale; Richard Manuel si interrogava sul suo futuro, chiedendosi se sarebbe stato legato ancora alla musica. Scorsese desiderava visualizzare la qualità del linguaggio della musica rock, snodando al tempo stesso un senso di libertà e di partecipazione. Il regista fu come al solito molto bravo a trasformare un impianto tradizionale, come ormai erano diventati i film-concerto alla metà degli anni Settanta, in una personale elaborazione del sogno americano. Mostrò l’approccio della Band, estremamente essenziale e concepito come un tutto unico, ed evidenziò i momenti più emozionanti del film. Come il numero di Muddy Waters che cantava “Mannish Boy”; o l’esecuzione da parte della Band del loro classico “The Night They Drove Old Dixie Down”, dove sembrò a tratti che l’essenza stessa della musica rock invadesse la scena, liberando una sensazione di irresistibile coinvolgimento. Al tempo stesso le canzoni di “The Last Waltz” definivano il ritratto del crepuscolo di un periodo culturale, il simulacro di un movimento eccitante ma ormai in fase di stanca. Non c’era niente che potesse cambiare il corso naturale degli eventi. Ad un certo punto del film Robbie Robertson lo dice: «La strada è stata la nostra scuola. Ci ha insegnato a sopravvivere. Ma non avremmo proprio più potuto ottenere nulla da essa. A questo punto avremmo forzato la fortuna a voler continuare. La strada si è rimangiata molta gente in gamba che di lì aveva cominciato: Hank Williams, Buddy Holly, Otis Redding, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Elvis Presley. Sul serio: ci puoi giurare».

Recentemente Peter Bogdanovich, il regista di “Paper Moon” e di “The Last Picture Show”, ha realizzato “Runnin’ Down A Dream”. Un lungo film, lodato dalla critica ed apprezzato dagli intenditori come una delle migliori produzioni di documentaristica rock, nel quale racconta la carriera di Tom Petty e del suo gruppo, gli Heartbreakers. Nell’occasione ha dichiarato di considerare il rock’n’roll, ancora adesso, un modo per conoscere una parte dell’America. Gli ha fatto eco Neil Young che con lo pseudonimo di Bernard Shakey ha presentato, sempre al Festival di Berlino e pochi giorni dopo gli Stones, il documentario “CSNY: Dejà vu”. Dove - con il pretesto di ricordare la storia della band formata con David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash - si è opposto alle guerre di Bush, con la stessa veemenza attraverso la quale trent’anni fa contestava la guerra in Vietnam. Young ha filmato le tappe della tournée di “Freedom Of Speach” del 2006; con i brani del disco “Living With War” inframezzati alle discussioni in pubblico sugli eventi del periodo, dal conflitto in Iraq alle decisioni del Congresso, registrando pareri anche favorevoli al Presidente, in realtà sempre meno numerosi nel corso del tempo. Significativa l’ovazione che accoglie il gruppo quando intona “Let’s Impeach The President”. «L’epoca della musica che può cambiare il mondo è finita», ha esordito Young a Berlino, lucidamente segnato dalla malinconia. «Non dobbiamo farci illusioni, l’America è cambiata, il mondo è cambiato». Con ironia ha rifiutato di parlare delle cose che non gli piacciono del presidente americano: «Per elencarle tutte avrei bisogno di una settimana. Faccio prima a dire l’unica cosa che mi piace, e cioè la forma fisica che riesce a mantenere». Quanto all’esito della prossima campagna elettorale Usa Young ha aggiunto: «Cerco di essere ottimista. Non tutti gli americani hanno dimenticato che la nostra è comunque una società democratica e vogliono ritrovare i valori della democrazia».

Intanto il Sunday Times ha annunciato che James Jagger, 21 anni, interpreterà suo padre in un film sugli inizi della band che verrà girato quest’anno. “Rolling Stoned”, basato sulle memorie del manager del gruppo Andrew Loog Oldham, verrà diretto da Julian Temple. Il giovane Jagger, che nel film sarà il 19enne Mick, ha raccolto ottime recensioni al suo recente esordio teatrale. «Se tenti di raccontare il giovane Jagger - ha sostenuto il produttore Peter Martin della Surreal Films - chi potrebbe farlo meglio di qualcuno che è geneticamente Jagger? Se vuoi un giovane Mick e un giovane Keith Richards, devi prima cercare nelle loro famiglie». Quarant’anni dopo la pietra rotola ancora. I registi Stefan Berg e Magnus Gertten hanno girato “Rolling Like A Stone” - che ha aperto, con una grande partecipazione di pubblico, l’ultima edizione del festival internazionale Corto in Bra, dedicato al cortometraggio - intervistando un gruppo di fan e musicisti locali che nel 1965, durante un tour degli Stones in Svezia, dettero vita ad una festa privata durate tre giorni (!) e ancora al centro dei loro ricordi.

Realizzando tre anni fa “No Direction Home”, il documentario musicale su Bob Dylan, è come se Scorsese avesse portato a termine una sfida. «E stato fatto utilizzando materiale giurato negli ultimi quarant’anni. Jeff Rosen ha intervistato Dylan, lo conosce da trent’anni ed è riuscito ad arrivare a una verità. Una verità e non la verità perché Dylan, come molti di noi, continua a reinventare se stesso. Dice: Non importa quello che ho detto riguardo me stesso, non importa quello che dico ora, importa quello che faccio. Alla fine non è la tecnica, non è lo stile. Sono le persone e ciò che si rivela nel momento in cui una persona abbandona la sua autoconsapevolezza e ti lascia avvicinare. Questo è il cinema». Scorsese ha recentemente ripreso questo concetto: «Il cinema come amore, missione, senso della vita, esplorazione del mondo e di se stessi. E’ una risposta all’antico bisogno dell’umanità di condividere la memoria comune, un’eredità che riguarda tutti». La relazione tra questi due linguaggi, il cinema d’autore e la musica rock più ispirata e indipendente, resta tra la cose migliori della cultura che abbiamo appreso tra gli anni Sessanta e Settanta e che ha portato ad un’affascinante e complessa configurazione di elementi, mentre aspettiamo che qualcuno ci dica chi siamo adesso. Nel frattempo Scorsee ha rinunciato alla regia del film su Marley. Al suo posto - altro caso felice in cui il taglio visivo delle azioni riesce ad aggiungere collegamenti, anziché toglierli - ci sarà Jonathan Demme.


Vittorio Castelnuovo

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