sabato 24 maggio 2008

Sull'ascolto

     Nel suo recente libro “Breve storia del futuro”, edito da Fazi, mettendo insieme narrativa di anticipazione, approcci visionari ed osservazioni più attinenti la realtà, Jacques Attali ha indicato nel buon uso delle innovazioni tecniche e nella condivisione delle capacità creative la possibilità di migliorare la condizione umana, gettando le basi per la nascita di un’iperdemocrazia planetaria davvero a beneficio di tutti. Tra i più attivi intellettuali contemporanei Attali è stato in passato una figura di spicco della sinistra francese, consigliere di Francois Mitterand e responsabile della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo; prima di accettare l’incarico offertogli dal presidente Sarkozy di dirigere la Commissioni sui freni della Crescita, di cui si è discusso anche nel nostro paese. 

Se l’idea di partenza di sviluppare un rapporto più maturo con gli oggetti e i prodotti industriali, dal personal computer al telefono mobile, non rappresenta una novità assoluta - fermo restando l’urgenza delle implicazioni sociali sull’impatto della tecnologia nella trasformazione dei servizi collettivi tipo la sanità, l’educazione e la sicurezza - colpisce la riflessione sulla necessità di assegnare all’esperienza artistica un ruolo di primo piano. Di fatto l’arte ci insegna come molte cose, con le quali oggi conviviamo, in realtà siano già successe. Noi pensiamo per esempio che Mandela - la cui biografia, scritta dall’ex ministro francese della cultura Jack Lang, esce in questi giorni per Piemme - sia stato un leader nuovo nella storia del pianeta. Eppure l’ultima opera di Mozart, “La clemenza di Tito”, racconta proprio la vicenda di una figura simile la sua; che perdona le persone che hanno tentato di ucciderlo e cerca di creare un nuovo governo con chi voleva eliminarlo. Gli uomini di potere piuttosto che domandarsi a cosa serva l’arte, considerandola un’avversaria piuttosto che una componente della vita pubblica, dovrebbero riflettere come essa possa essere alla testa della democrazia. 

All’interno di questa ricerca, dove i contenuti degli eventi sono analizzati su un piano insieme collettivo e profetico, è in particolare nella musica che Attali indica l’occasione di cogliere la diversità e l’attaccamento alla vita; sulla falsariga del filosofo Gilles Deleuze, teorico della differenza e del movimento, che era affascinato dalla possibilità del cinema di dare attraverso le ombre e le luci un senso di realtà, capace di superare i limiti dello spettacolo e diventare gran teatro dell’esistenza. Da secoli la nostra cultura cerca di guardare il mondo; non ha capito, sembra volerci dire l’autore, che il mondo non si guarda, si ascolta. Sono parole che ancora adesso aprono un cammino all’esplorazione dell’irrazionale, sviluppano un’ombra filosofica e creano un flusso nomade del desiderio, ma che Attali aveva già messo insieme e pronunciato. Quando, nel 1977, scrisse “Rumori”; un pamphlet sull’economia politica della musica che suscitò parecchio scalpore, pure in Italia dove fu pubblicato da Mazzotta, all’interno del quale decifrava il suono come uno dei luoghi dove cominciano i mutamenti e si può capire meglio quali speranze siano ancora possibili.   

Se esista dunque un modo di ascoltare tipico della nostra età e in quali forme a partire dalla fine del Novecento esso si sia affermato, è un interrogativo che si sono posti molti pensatori. E’ stato il filosofo Mario Perniola a gettare le basi di questa indagine; dando alle stampe per Einaudi, nel 1991, “Del sentire” ed individuando nel passato remoto dell’Occidente, quello dell’antichità classica, un’opportunità di percepire radicalmente opposta a quella attuale e anonima del già sentito. Un’interpretazione alternativa al palinsesto sensologico che conosciamo e inseparabile dall’esercizio della filosofia; in grado di soddisfare il desiderio di conoscenza e di costituire altresì una guida per l’azione, convocando le grandi opzioni del pensiero moderno fino all’amore del mondo.

In una direzione parallela si inscrive l’approccio del filologo Maurizio Bettini che in “Voci”, uscito per Einaudi, ha raccolto un’antropologia sonora del mondo antico. Persino commuovente nel ricreare una fonosfera popolata da lupi e lepri, miti dolorosi di usignoli e rondini, merli romani, francolini greci, upupe siciliane, pettirossi francesi; combinati con il colpo di martello dei fabbri, lo strepito delle macine dei mugnai, il cigolio dei carri e il suono della frusta. Risuonano così i canti degli uccelli, le grida degli animali e le lontane parole degli uomini. Voci che gli antichi consideravano messaggi di buono o cattivo augurio; capaci di predire il futuro, annunciare la nuova stagione e persino di resuscitare antiche leggende come di fornire ai musicisti e ai poeti un castello di memorie sonore, all’interno del quale scovare occasioni precedentemente ignorate di conforto.

Una presa di posizione sull’inciviltà del rumore arriva invece da Gillo Dorfles, che in “Horror pleni”, edito da Castelvecchi, si scaglia contro la saturazione del mondo dei media. Il critico d’arte si domanda se in un’epoca satura di segnali; mortificata dalla pubblicità e dalla propaganda politica; stordita dalla produzione incontrollata di letteratura, arte e moda; e che nel frattempo ha perduto la memoria degli interminati spazi e dei sovrumani silenzi delle origini, sia possibile mantenere una consapevolezza. Con il loro groviglio di messaggi, creature virtuali ed eventi immaginari, i nuovi orizzonti dell’espressione digitale minacciano di tagliarci fuori dal divenire della cultura e di distorcere il nostro gusto. Eppure Dorfles ci invita lo stesso ad attraversarli, impegnandoci a riempirli di senso ed opponendoci a questa catena di eccessi con ogni nostra capacità informativa e comunicativa; mantenendo così inalterate, pure nel cambiamento, la nostra umanità e la nostra libertà, pure se questo passo comporta una maggiore insicuezza.

Epicentro di questo tragitto è stato il contributo reso dallo studioso canadese Marshall McLuhan. Professore di letteratura inglese, lettore appassionato della tradizione classica ed estimatore del modernismo angloamericano, McLuhan si affermò come guru dei mass media; per aver esplorato l’approccio attraverso il quale i mezzi di comunicazione riconfigurano l’ambiente e condizionano la psiche umana; e per aver collegato, proprio grazie alla tradizione umanistica, la percezione del processo poetico della letteratura e delle arti in una strategia privilegiata per far adattare l’utente al mondo contemporaneo. Nel 1969 lo studioso ebbe a dichiarare: «L’alfabetismo ha estromesso l’uomo dalla tribù, gli ha dato un occhio al posto dell’orecchio ed ha sostituito il suo sentimento di appartenenza collettiva, totale e in profondità con i valori visivi e lineari e con una conoscenza frammentaria. Di qui un possibile nota di ottimismo. Se la civiltà elettronica esalterà di nuovo l’orecchio, il senso della vicinanza, vi è qualche speranza che le divisioni possano attenuarsi». Da questa riflessione ha preso inizio il ragionamento di Michael Bull e Les Back in “Paesaggi sonori”, stampato da Il Saggiatore. Se vista e udito hanno un ruolo parimenti decisivo nella comprensione del mondo, ricordano i due ricercatori, il campo visivo ha sempre dominato i dibattiti sull’esperienza culturale. Finora infatti l’approccio con cui entriamo in relazione col mondo e lo pensiamo è sempre stato influenzato più dalla vista che dall’udito. Combinando sociologia, cultural studies, filosofia, antropologia, geografia urbana e musicologia, il saggio evidenzia questa rivalità, svelando invece quanto la vicenda acustica abbia inciso nella nostra esistenza. I rintocchi dei campanili dei villaggi nei comuni francesi, le processioni protestanti nell’Irlanda del nord, le dinamiche della vita d’appartamento accompagnate dai suoni della radio in Gran Bretagna, le passeggiate metropolitane con la musica in cuffia nelle città europee, le feste reggae, le manifestazioni politiche e i rituali religiosi. Dal suono evocativo delle campane di paese al chiasso stridente del traffico stradale, ciò che udiamo modifica i nostri stati d’animo e le nostre azioni. Oltretutto con l’avanzare della tecnologia, il mondo è diventato sempre più rumoroso e inquietante, e per difenderci dai rumori siamo andati alla ricerca di nuovi suoni in grado di calmarci, proteggerci e alleviarci. Esaminando i rumori della città, i suoni e le voci, il saggio assegna all’esperienza acustica un ruolo definitivo in ambito storico e sociale. L’impatto violento dei tafferugli della Belfast divisa, quello ancestrale delle cerimonie tribali fra i nativi d’America, il frastuono urbano nella Londra del Seicento, il potere ammaliante della voce dei dj, quello persuasivo dei leader politici; tutti insieme offrono inediti punti di vista su cosa significhi conoscere il mondo attraverso il suono ed invitano a pensare con le proprie orecchie. Ci suggeriscono come ogni giorno regoliamo lo spazio e il tempo tramite il suono. Perché l’orecchio è senza difese, e l’uomo è sempre in ascolto.

Se dunque la concezione della vita pare essersi frantumata, non essere più riconducibile a un’immagine coerente e sollecitata piuttosto da numerose altre trame teoriche, è la riflessione attorno al presentire che orienta oggi il lavoro di molti pensatori. Essa proviene nel Novecento da opere non direttamente connesse con l’estetica; eppure necessarie, toccando l’ambito degli affetti e delle emozioni, per la ridefinizione delle attuali forme di conoscenza. Così non sorprende che il filosofo francese Peter Szendy ripercorra la disciplina della sorveglianza uditiva in “Intercettare”, uscito per Isbn, ricostruendo una sorta di archeologia dell’origliare, dalle tecnologie primitive fino ai computer, e ripercorrendone la rappresentazione artistica dalla Bibbia a Hitchcock fino a David Lynch; inclusa la citazione della magistrale messa in scena di Francis Ford Coppola ne “La conversazione”, il film sulla sorveglianza girato nel 1974 al tempo del Watergate. A metà strada tra una mistica dell’ascolto e una bizzarra fenomenologia dello spionaggio, la volontà di Szendy appare quella di nutrirsi del nesso contraddittorio tra vedere e sentire, alimentando in questa maniera l’idea della scrittura come possibilità per imparare ad ascoltare. Nel significato della sua ricerca si intrecciano un lessico di ispirazione filosofica, con una forte connotazione visiva, ed un’originale commistione di punti di vista. Seguendo l’esempio di Jacques Derrida, il filosofo francese teorico della decostruzione che con infinita tenacia ha ripensato la problematica dell’opposizione e dell’alterità, Szendy gioca con il proprio ruolo di osservatore e testimone, all’interno dell’esterno e viceversa; non smettendo di generare doppiezza, duplicità e duplicazione e condensando semmai il passato e il futuro in un tempo che li confronta sul limite del pensiero presente.  

Il messaggio di questi libri ci dice come non si possa giungere esclusivamente attraverso il ragionamento e l’azione alle nozioni sulle quali poggia la sensibilità contemporanea. Per molti teorici esse richiedono un sentire differente, straniante, rintracciabile in un’esteriorità irriducibile allo spirito, in una scrittura impronunziabile, in una ritualità incomprensibile, oppure nelle vaste sfumature dell’universo femminile. La donna infatti non è il segno di un ordine stabilito ma la traccia di tutte le minoranze e di ogni possibile linea di fuga, esprimendo una volontà differente dell’agire nella vita. E’ il dialogo con lei declinato nella letteratura, nel metodo, nella psicanalisi, che fornisce alla diversità una chance, mutando la mediazione in una sperimentazione e infine in una composizione. Queste istanze, aggiungendosi a quelle già note della politica, della scienza e della comunicazione, fanno compiere al sentire una svolta. Sulla cui portata dobbiamo interrogarci, perché il significato della loro differenza le trasforma in qualcosa che ancora non sappiamo. Eppure ne avvertiamo la forza necessaria per cambiare il nostro modo di desiderare il mondo.


Vittorio Castelnuovo

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