lunedì 19 maggio 2008


scrivi a Vittorio Castelnuovo

igiradischi@libero.it


La luce cambia nell'appartamento

(tratto da www.igiradischi.com del 26 Aprile 2006)

Le radici di una parte del nostro immaginario collettivo affondano in quel lungo periodo di tempo che inizia a flettere il proprio arco nella seconda metà degli anni Cinquanta, e che termina la propria corsa nella seconda metà degli anni Settanta. Un’affascinante racconto musicale di quell’epoca è stato pubblicato recentemente: ci riferiamo al bellissimo cofanetto “Washington Square Memoirs”, a suo tempo segnalato da questo giornale, che riassume le tappe principali della canzone americana d’autore; sia quella che non oltrepassò le soglie della dimensione artistica, sia quella che divenne invece strumento di denuncia e di propaganda. Fu all’interno di quel lungo spazio di tempo che, grazie ad una maggiore distensione politica, prodotta dalla “nuova frontiera” di John F. Kennedy, e da un prodigioso sviluppo economico che investì anche numerosi paesi europei, molti artisti contribuirono a diffondere modelli di vita alternativi rispetto a quelli consueti, riflettendo gli umori delle generazioni che si affacciavano su quell’inedito panorama storico: dai temi dell’amore e della pace a quelli della rivolta. Andy Warhol, che fu uno dei principali protagonisti di quelle stagioni nell’ambito culturale, ne sintetizzò lo spirito avventuroso e sincero: «Devi credere pure in qualche cosa, perché le cose possono sempre peggiorare».

La guerra in Vietnam, che a metà degli anni Sessanta coinvolse sempre di più gli Stati Uniti e caraterizzò la scena mondiale, creò un’opposizione interna all’America stessa. Essa infatti favorì la crescita di un movimento giovanile di protesta, che raggiunse la massima estensione negli ultimi anni del decennio, quando tuttavia i conflitti sociali si inasprirono senza alcun rimedio, facendo svanire l’ottimismo con cui quell’esperienza era iniziata. E’ stato ormai ampiamente dimostrato come gli scrittori della beat-generation, che si imposero all’attenzione mondiale proprio in quel frangente, furono non solo tra gli interpreti principali di quella straordinaria gamma di umori, ma soprattutto ne furono gli autori. Le curiosità e le aspettative con le quali molti ragazzi, ancora oggi, si avvicinano alla letteratura di ogni epoca, sono andate formandosi anche grazie all’impatto che quegli scrittori ebbero tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Un impatto talmente forte da sopravvivere alla scomparsa fisica dei suoi portavoce, dei quali oggi rimane, solitario, Lawrence Ferlinghetti, che l’autore di questo articolo ha avuto il privilegio di frequentare, cogliendone il senso di speranza che ancora contraddistingue il suo franco impegno di poeta, di editore, di attivista, di pittore e, non ultimo, di fresco studente d’italiano.

Queste emozioni restano sempre attuali, ma vengono ora risvegliate dall’anniversario della pubblicazione di “On The Road”, avvenuta nel 1965; e dalla lettura di alcuni libri, tra cui “Jack Kerouac”, scritto dal giornalista inglese David Sandison e edito da Mondadori, e “Jack’s Book”, realizzato da Barry Gifford e da Lawrence Lee nel 1978 e pubblicato in Italia dall’editore Fandango. Il libro di Sandison si fa apprezzare per l’inusuale combinazione di parole e immagini e visualizza in maniera molto suggestiva l’abbandono, da parte di Kerouac, del modo di vita legato alla tradizione, convinto com’era che la letteratura avesse a che fare con l’esistenza stessa. Contemporaneamente il testo racconta l’estetica dello scrittore, fatta di solitudine e destino, di bellezza sbandata, dove ciascuno ricomincia dall’inizio, come colpito da un’incantesimo; l’’incantesimo lanciato da Kerouac, che svela come non sia necessario accollarsi un’esistenza immobile, e attaverso il quale viene recuperata quell’innocenza che avvicina tutti i grandi narratori americani, da Jack London a Raymond Carver; e che provoca, infine, quell’inquietudine che dà un senso particolare al sentimento, portando ad una vitale contraddizione rispetto allo sviluppo della modernità statunitense. Il libro di Barry Gifford e Lawrence Lee è ancora più importante sul piano critico, perché raccoglie le testimonianze dei poeti, dei musicisti, dei profeti, della gente comune che hanno conosciuto Kerouac o che hanno lavorato o vissuto con lui. E’ un testo classico della letteratura americana contemporanea, stampato con incomprensibile ritardo nel nostro paese ventitrè anni dopo la sua apparizione. Lawrence Lee, scomparso undici anni fa, è stato un giornalista molto attivo sia sul fronte editoriale che su quello televisivo. Barry Gifford invece, come ben sanno i lettori di questa rivista, è uno dei nostri autori. Affermatosi con “Cuore Selvaggio”, da cui David Lynch trasse l’omonimo film nel 1990, il romanziere è stato forse quello che ha raccontato meglio l’America stracciona e disperata dei luminosi anni Novanta, quella che ancora vive di espedienti, nel bel mezzo del più sfrenato consumismo.

E’ stato sottolineato parecchie volte come uno dei principali risultati raggiunti dagli scrittori di quel movimento fu la capacità di visualizzare le contraddizioni della vita americana. Kerouac in particolare sviluppò una scrittura in grado di scuotere la fantasia e la coscienza di molte persone. Le sue parole potenti illuminarono il buio dell’immaginazione giovanile di allora, e gli audaci accostamenti dei suoi testi provocarono uno shock tale da produrre una formidabile volontà creatrice. Tutti quei ragazzi che avevano paura a realizzare i propri sogni e a spogliarsi dei propri tabù, trovarono nel linguaggio di Kerouac un inaspettato modello di riferimento. Lo scrittore cercò di raggiungere questo ideale in tutti i suoi lavori. Per esempio nel suo libro più importante, “Sulla Strada”, che egli scrisse nel 1951, ma che fu stampato sei anni dopo a causa dell’offensiva di tutti gli editori. E questo ideale di indipendenza intellettuale, questo ininterrotto inseguimento della bellezza e del sogno, segnò anche il titolo più difficile della sua bibliografia: il diario di una fantastica infanzia perduta de “Il Dottor Sax”, che resta un piccolo capolavoro di letteratura astratta e probabilmente il testo meno conosciuto di Kerouac. Per molti appassionati che hanno utilizzato la musica rock come campo base per le successive esplorazioni culturali, la letteratuta beat è stato un naturale punto d’approdo. Potremmo aggiungere che essi sono stati, rispetto alla letteratura, quello che furono i musicisti rock rispetto alla musica leggera, trasformando un’epoca storica nell’età dei filosofii del cielo. Sembrava davvero che avessero tutti fatto tesoro di quella osservazione di Tertuliano: «Si può credere perché è illogico».

E c’era effettivamente qualcosa di illogico, ma anche di meraviglioso, nell’aspirazione che avvicinava questi scrittori ai complessi rock, ai registi cinematografici come Dennis Hopper, ai nuovi ruggenti autori di teatro come Julian Beck e Judith Malina, agli eroi della denuncia come Lenny Bruce, e al pubblico che seguiva questo percorso di illusione e di speranza: il sogno di una società non violenta, libera e democratica. Una società di pace, come molti di quegli artisti avevano imparato a concepire, da ragazzi, leggendo i libri di Walt Withman, vero padre putativo di tante arte americana contemporanea. E dalla sua lettura avevano mutuato anche gli strumenti del loro impegno: le parole, la poesia, il linguaggio, rivendicando così il ruolo centrale dell’utopia. Questa nuove e documentate pubblicazioni su Jack Kerouak arrivano oltretutto poco tempo dopo un’altra significativa iniziativa editoriale: la bella biografia collettiva di James Campbell dal titolo “Questa E’ La Beat Generation ”, edita da Guanda, e che riassume piuttosto bene lo spirito con il quale i beatnicks avevano condiviso gioie e dolori della loro non facile esistenza. Tutte queste notizie - alle quali bisogna aggiungere quella della recente pubblicazione dell’opera omnia di Kerouac, da parte della prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori - ribadiscono, una volta di più, l’attualità di questo messaggio. Un messaggio alimentato, nel corso del tempo, dall’attività di molti artisti che si sono ispirati all’universo simbolico dei beat; basti pensare, per restare nell’ambito del rock, al lavoro di Tom Waits, o alle collaborazioni di Bill Laswell e del povero Kurt Cobian con William Burroughs. Ma il messaggio di Jack Kerouac, e di tutti gli altri esponenti della beat-generation, è stato soprattutto rinnovato dalle aspettative del pubblico giovanile, che ha da tempo individuato in quei libri e in quelle visioni la fonte della propria speranza di libertà: la libertà di vivere, e la libertà di pensare.

Vittorio Castelnuovo

Nessun commento: