domenica 18 maggio 2008


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Se una Radio è libera, ma libera veramente, non usa le play-list.

(tratto da www.igiradischi.com del 18 Aprile 2006)

Nella puntata di giovedì 9 marzo de “L’Incudine”, il programma che va in onda su Italia Uno e che è condotto da Claudio Martelli, si è discusso degli anni Ottanta. Tra gli ospiti c’era Carlo Massarini, che per tanto tempo è stato tra le figure professionali più apprezzate della Rai. Nel corso della trasmissione Massarini ha accennato al problema della Play-list, e di come esso danneggi i palinsesti delle radio pubbliche e private. Immaginiamo che i telespettatori ai quali non è estraneo il problema, per un attimo avranno avuto un sussulto. Si saranno detti: finalmente qualcuno che tira fuori l’argomento. Ma l’illusione è durata pochi secondi; perché tra una battuta e un’altra, e complice soprattutto una malcapitata pausa pubblicitaria, il tema, che pure aveva colpito l’attenzione dei presenti, non è stato approfondito. Di cosa si lamentava Carlo Massarini? Del fatto che rispetto al passato i programmi delle emittenti siano condizionati da un sistema di controllo della messa in onda, chiamato appunto Play-list. Un sistema che non solo ha peggiorato il livello dell’offerta radiofonica, abbassando gli standards generali, ma ha finito col diventare uno strumento di censura. Bisogna fare un passo indietro e spiegare per bene di cosa stiamo parlando; anche se parliamo di una cosa sotto gli occhi, sotto le orecchie, di tutti; ma sappiamo per esperienza che non tutti ci fanno caso fino a quando non viene fatto loro notare. La Play-list è un’invenzione degli americani, maturata alla metà degli anni Settanta. L’idea di partenza era buona: per caratterizzare una stazione radio, e renderla così immediatamente riconoscibile agli ascoltatori, era stato deciso di creare una sorta di biglietto da visita musicale, con l’allestimento di una selezione di canzoni o di brani strumentali. La selezione veniva regolarmente aggiornata, mantenendo fede allo scopo iniziale: connotare la programmazione radiofonica, e differenziarla da quella delle altre emittenti.

Ora non è più così, ammesso che in Italia lo sia mai stato, ela Play-list è diventata la principale, e al momento imbattibile, avversaria della libertà dell’informazione di settore; privilegiando la musica di consumo ed escludendo tutto il resto. Peggio ancora: il cattivo e spesso poco comprensibile - poco comprensibile? - utilizzo di questo meccanismo, ha creato un’omologazione a causa della quale è diventato impossibile scorgere la differenza di una radio dall’altra. Tutte trasmettono lo stesso prodotto: si chiama avvilente e attuale. Se ne accorto persino il Priore Enzo Bianchi; citando il decadimento della bellezza musicale all’interno di un bell’articolo sul silenzio apparso su La Stampa lo scorso 19 Febbraio. Del resto, che le cose si mettessero male lo si era capito durante gli anni Novanta; quando la Rai decise di smantellare, dopo avere fatto lo stesso con altre produzioni, una delle sue trasmissioni più gloriose: “StereoNotte”. A nulla valsero le rimostranze dell’opinione pubblica. Nata all’inizio degli anni Ottanta, da un’ idea di Pierluigi Tabasso, “StereoNotte” era dedicata esclusivamente alla buona musica. E per oltre dieci anni fornì agli appassionati ogni giorno, da mezzanotte alle sei, un ascolto fuori dal comune. Alternando i migliori specialisti, ed offrendo un’irripetibile possibilità di apprendimento; pure se oggi adoperare la parola apprendimento, nell’ambiente Rai, significa passare per dei poveri imbecilli. La chiusura quasi definitiva di questa trasmissione, che oggi vivacchia andando in onda una volta la settimana, è diventata simbolica dell’accanimento verso la musica non commerciale. Un accanimento apparentemente privo di spiegazioni, pure per i professionisti più affermati. Da Renzo Arbore, che tanto si è battuto per la conoscenza nel nostro paese della buona musica, a Tiberio Timperi, che non perde occasione per denunciare questo malcostume. Sia Arbore che Timperi sono stati tra i testimoni di un libro del giornalista Renato Sorace, intitolato “EffeEmme” ed uscito la scorsa estate per i tipi di Memory. Sorace ha raccontato l’intensa stagione degli anni Settanta scegliendo come percorso narrativo quello della nascita delle radio libere. E facendo rivivere il clima di quel periodo storico, dove l’onda lunga degli anni Sessanta trovò una nuova intonazione anche grazie all’impegno di case editrici come la Savelli , la GammaLibri , la Lato Side , Stampa Alternativa, l’Arcana di Raimondo Biffi. Editori che avevano individuato un’inedita visione della cultura popolare; attraverso un altro modo di esplorare l’immaginazione, nel quale le parole e la musica creavano un canone originale, un rapporto circolare che pian piano prendeva le forme di un racconto melodico.

In quell’intervento di pochi istanti Massarini ha evocato una dimensione che non c’è più, che è scomparsa senza lasciare traccia. Come senza lasciare traccia sono spariti gli addetti ai lavori che hanno creduto in quell’esperienza, investendo tutte le loro risorse sulla musica di qualità e sulla sua diffusione. Ci sono ragioni storiche che spiegano questo fenomeno, poiché da noi occuparsi di canzonette non è mai stato giudicato un mestiere vero e proprio. Il boom della musica leggera avvenne negli anni Cinquanta, sulla scia del successo del Festival di San Remo, e prese in contropiede il mondo dell’editoria, che sbagliò la valutazione del fenomeno considerandolo transitorio. Ma sul momento bisognava soddisfare la curiosità degli utenti verso quella nuova area giornalistica; alla quale furono avviati, nel convincimento che l’interesse sarebbe stato di breve durata, coloro che bazzicavano le redazioni senza nessuna specifica competenza. L’idea era che parlare di Claudio Villa o di Modugno, di Mina o di Celentano, di Frank Sinatra o di Elvis Presley fosse una cosa che chiunque era in grado di fare. Questo spiega perché nel corso del tempo si alternarono numerosi critici competenti di musica popolare, di jazz, di canzone politica - come Testoni, Leydi, Straniero, Polillo, Liberovici - e pochi di musica leggera. L’avvento trent’anni fa delle riviste specializzate, seguito da quello dei libri e delle radio indipendenti, sembrava avere creato un movimento, assegnato una prospettiva. La Rai ne aveva mano a mano preso coscienza, e aveva sviluppato un proprio stile. Neppure si intravedeva la miseria attuale. Era un miraggio malato. Ricordate com’era bello accendere la televisione e vedere “Mister Fantasy” o “DOC”? Succedeva da noi, di sera, parecchi anni fa. Parecchi anni prima di venire convocati da imbarazzanti funzionari dell’azienda di stato, e ricevere sonore reprimende perché poco brillanti al microfono. Perché bisognava lanciare i Pink Floyd sghignazzando; ed ispirarsi semmai a Fiorello, ormai considerato - pur tenendo conto di quanto è in gamba - alla stregua di Buster Keaton. Era concessa pure qualche imprecazione, secondo quegli avvilenti suggerimenti, a patto di ricordarsi di essere dei soldati Rai.

Ora risuona beffarda, come una canzone agrodolce, la battuta di Achille Campanile; quando parlava dell’Italia come del paese delle inaugurazioni, ma non della manutenzione. Campanile non era un Disc-jokey, e pensava sicuramente ad altro quando pronunziò quell’amara osservazione, però ci aveva preso. Ci affrettiamo ad inaugurare Case del jazz o del cinema - e che ben vengano, ci mancherebbe - ma se cerchiamo di ascoltare un pò di buona musica alla radio possiamo attaccarci al tram. A meno che l’indomani non dobbiamo recarci al lavoro, allora possiamo stare svegli fino a notte tarda ed apprezzare l’offerta, raffinata ma esclusiva, di Radio Tre. Diventeremo dei carbonari: faremo le cose di nascosto, al buio, magari indossando una barba finta. E’ troppo poco. I colleghi della carta stampata tuonano di fronte al successo del pianista jazz Keith Jarrett, o del cantautore brasiliano Caetano Veloso. Che riempiono piazze e sale da concerto anche in Italia; ma che non sentiamo o vediamo da nessuna parte, come semplici utenti di radio e tv. Coloro che ci guidano nella vita e nelle scelte di ogni giorno hanno priorità più urgenti da provare a risolvere, ce ne rendiamo conto. Però fa rabbia, e provoca qualche sospetto, che le persone più attrezzate non ne discutano abbastanza nelle sedi opportune. La rinascita di un paese non passa esclusivamente attraverso l’economia; che, intendiamoci, rimane la componente fondamentale per l’abbattimento, o il ridimensionamento, dei problemi sociali. Tuttavia è importante riformulare realmente anche la questione culturale; scoprendone, in seguito, le sorprendenti ripercussioni anche sul piano economico. E la questione culturale non esclude, piuttosto coinvolge, l’educazione musicale. La qualità dell’ascolto ha eccome una valenza politica. E questa valenza non si esaurisce contattando i migliori architetti e realizzando Auditorium, che dovrebbero essere i punti d’arrivo di un processo di formazione. Al contrario, sono i punti di partenza che non troviamo. Eppure stiamo parlando di mandare in onda qualche bella canzone, mica progettare lo sbarco sulla luna. Ecco perché, nonostante ci sia parecchio da aggiungere - per esempio su come sono state amministrate, da parte dei professionisti del settore, quelle poche chances che sono state date - questo articolo somiglia più a uno spiraglio.

Vittorio Castelnuovo

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