martedì 11 marzo 2008

Su David Lynch

Una domanda che si posero in molti dopo aver visto “Eraserhead”, il primo lungometraggio di David Lynch nel 1976, era come un autore appena trentenne sarebbe riuscito, all’interno dell’industria hollywoodiana, a sviluppare la propria utopia visiva, connotata da un’immaginazione assolutamente fuori dal comune. Un dubbio che passò per la mente pure di Stanley Kubrick, il quale apprezzò il film al punto da dichiarare di considerarlo uno dei suoi preferiti di tutti i tempi. L’episodio è riportato in “Acque profonde”, in questi giorni in libreria per i tipi di Mondadori, dove sono raccolte meditazioni e piccole forme di creatività che il regista ha trascritto nel corso del tempo e dedicato al Maharishi Yogi; mentre contemporaneamente Marsilio pubblica un volumetto di ispirazione saggistica curato da Paolo Bertetto. Insieme questi due testi compongono un omaggio al mondo visionario del regista, mostrando come sia stato capace, grazie la sua immaginazione, di combinare figurazione e astrazione in un’unica e oscura materia audiovisiva. 
La stampa parlò di “Eraserhead” come di una pellicola che bisognava sentire più che spiegare; e indicò in Lynch il capostipite dell’avanguardia cinematografica, anticipando la tendenza della critica a riconoscerne il talento come uno dei più originali del cinematografia contemporanea. Lynch si era appassionato al cinema la prima volta attorno la metà degli anni Sessanta a Philadelphia, dove studiava presso la Pennsylvania Academy of Fine Arts. Prima di allora la sua attenzione era rivolta esclusivamente alla pittura, e per questa ragione aveva abbandonato gli studi per iscriversi alla Boston Museum School, per poi intraprendere un viaggio in Europa allo scopo di studiare col pittore Oscar Kokoschka. Avendo in comune con i suoi futuri progetti un approccio narrativo coraggioso è verosimile ritenere che Lynch fosse a conoscenza delle otto litografie con le quali nel 1914 Kokoschka illustrò “La muraglia cinese”; il brillante saggio che cinque anni prima Karl Kraus scrisse sulla falsità della morale sessuale odierna e scaturito da un episodio di cronaca nera: l’assassinio, nel quartiere cinese di New York, della missionaria bianca Elsie Siegel per mano del suo amante cinese, a quanto si diceva dotato di molteplici esperienze nell’arte amorosa. Fu in quel periodo che il regista maturò il proprio stile, dirigendosi verso misteriose astrazioni materiche e componendo grandi mosaici di figure geometriche che intitolò Industrial Symphonies. Questa inclinazione lo portò ad interessarsi alle possibili combinazioni tra pellicola e pittura - facendo eco all’osservazione di Manet, che intravedeva nell’immagine un dire senza parole - ed a realizzare i primi progetti, come “Six Figures Gettin Sick” del 1966 e “The Alphabet” del 1968, a metà strada tra l’installazione e il cinema sperimentale.
A partire dal 1970 Lynch si dedicò quasi esclusivamente al cinema, ottenendo una sovvenzione di 5000 dollari dall’American Film Institute e realizzando “The Grandmother”; un’intensa pellicola di trentaquattro minuti nella quale concentrò alcuni temi di fondo della sua ricerca, come i progressivi cambiamenti delle forme e l’oscurità pervadente della messa in scena, ottenuta quest’ultima dipingendo le pareti di casa sua completamente di nero. Un ulteriore spostamento, questa volta a Los Angeles, consentì all’artista di iscriversi al Conservatorio dell’American Film Institute e di ricevere un contributo finanziario di 10.000 dollari, con i quali nel 1971 cominciò a lavorare a “Eraserhead”. Ma la realizzazione fu talmente lunga che nel 1974 Lynch trovò il tempo di girare “The Amputee”; un piccolo macabro film di cinque minuti, in cui egli stesso figurò come attore, realizzato con due videocassette di prova. 
L’attenzione sviluppatasi intorno a Lynch per via di “Eraserhead” - prima giudicato impossibile da mandare nelle sale, poi divenuto un film di culto grazie all’aiuto del distributore Ben Barenholtz, che organizzò proiezioni presso il circuito dei cinema notturni - convinse il produttore Mel Brooks ad affidargli nel 1980 la regia di “Elephant Man”; basata sulla storia di Joseph Marrick, un uomo vissuto nell’epoca vittoriana affetto da un’atroce mostruosità al volto. Il successo della pellicola, che ricevette otto nominations all’Oscar inclusa quella della miglior regia, rappresentò una sorpresa per quanti non erano in grado di immaginare le capacità di Lynch al servizio del cinema commerciale. Invece nel corso degli anni successivi l’approccio innovativo sviluppato nei confronti del suono, la forte intenzionalità autoriale, il rapporto differenziale con l’immagine e la rappresentazione delle cittadine di provincia dell’America rurale come iconologia di mondi di finzione, trasfigurandone i luoghi in un universo propriamente mentale - una connotazione forse derivata dall’infanzia trascorsa tra continui spostamenti lungo il nord est americano al seguito del padre, un dipendente del Dipartimento di agricoltura - indussero gli addetti ai lavori a coniare espressioni come Lynchland oppure Lynchtouch, ribadendo nell’immaginario collettivo la suggestiva diffusione del progetto del regista americano e scorgendo nei suoi film non tanto delle storie quanto delle esperienze. 
Da allora Lynch - che nel frattempo si è legato al compositore Angelo Badalamenti, in un fecondo sodalizio artistico alimentato anche dall’incisione di alcuni dischi - ha alternato i passi falsi di “Dune” e di “Fire Walk With Me” ai successi di “Blue Velvet” e di “Wild at Hearth”, quest’ultimo premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1990; per tacere della popolarità recata dal trionfo della serie televisiva “Twin Peaks”, che gli è valsa la copertina di Time. Fino a “Mulholland Drive”, vincitore anch’esso a Cannes nel 2001; che è risultato essere, lungo lo sdoppiamento del racconto e dei personaggi, un oscuro puzzle visuale dove vengono esplorate tutte le possibilità dell’intrigo narrativo, formando così una struttura aperta ad una molteplicità pressoché infinita di interpretazioni, come è stato attestato dall’ampio numero di studi che gli sono stati tributati. Sulle origini del film Lynch dichiarò: «Le parole hanno un grande potere, per i poeti sono strumenti di lavoro. Quella scritta nella notte, unita alla conoscenza della strada, una delle più lunghe e vecchie di Los Angeles, ricca di anime diverse, che attraversa quartieri lussuosi e zone completamente deserte fino a calarsi a strapiombo nell’oceano, ha provocato qualcosa nella mia testa, un incontro misterioso di destini che si intrecciano, forse nella realtà, forse nel sogno. Una strada conduce in luoghi diversi e i luoghi cambiano anche le persone, come i percorsi nel tempo. Mi piacciano le strade, soprattutto di notte, quando sembra di entrare in territori sconosciuti, nell’ignoto». 
L’affermazione professionale non ha allontanato Lynch dalla pittura e dalla fotografia, facendone infine un artista poliedrico dall’indubbio talento visionario. Da una serie di paesaggi industriali, terminata alla metà degli anni Ottanta, alla messa in scena di Industrial Symphony N° 1 presso la Brooklin Academy of Music; dalle cinque esposizioni personali, tenute nei primi anni Novanta, alla Mostra presso la Triennale di Milano lo scorso inverno intitolata The Air is on Fire. In un’occasione Lynch ha sintetizzato il suo punto di vista: «La vita è molto, molto complicata e così anche ai film dovrebbe essere permesso di esserlo».
Vittorio Castelnuovo