sabato 1 marzo 2008

Sui Clash e sui Nirvana

Contemporaneamente l’uscita dei due film che ne ripercorrono le rispettive vicende, la ristampa per i tipi di Arcana di “Death or glory”, biografia dei Clash scritta da Pat Gilbert, e la novità di “Nirvana”, firmata da Everett True e pubblicata da Mondadori, ribadiscono l’attualità del punk, che alla metà degli anni Settanta stravolse le consuetudini pop diventando un fenomeno di costume, e quella del grunge, che invece segnò un’eccitante tendenza stilistica al termine del decennio successivo.

            Ancora adesso la critica ne parla come gli ultimi significativi movimenti della musica rock; ora così imbrigliata nelle logiche mercantili da non essere più capace di esprimere un messaggio artistico con la vitalità e l’urgenza degli anni passati. Inoltre le due esperienze in qualche misura possono essere messe sullo stesso piano, come ha dimostrato Steven Blush nel recente “American punk hard core”; dove l’avvincente storia tribale della scena americana degli anni Ottanta e l’infernale parabola di band tipo Black Flag e Dead Kennedys vengono descritte come un cruciale anello di congiunzione tra due periodi distanti nel tempo ma in realtà protesi l’uno verso l’altro.

            Insieme al povero Jeff Buckley e con la possibile eccezione di Beck, Kurt Cobain resta il talento più puro della musica giovanile di questi decenni. Autore di canzoni ispide, condizionate dai Beatles e dalla disperazione, e profeta suo malgrado della Generazione X - come fu etichettata, massificando stile di vita e abbigliamento, l’ondata scaturita dall’affermazione dei Nirvana e dai gruppi grunge, Soundgarden e Pearl Jam in testa, e amplificata dal film “Singles” con Matt Dillon - il giovane musicista passò in un lampo dalla carboneria underground al trionfo di “Nevermind”, uno dei dischi rock più importanti di sempre.

            A sorpresa nel 1992 Cobain suonò un lacero accompagnamento musicale in un monologo di William Burroughs, il demone della letteratura, intitolato “The priest they called him”. Il brano durava circa dieci minuti e parlava di un prete tossicomane che alla vigilia di Natale trova per strada una valigia con dentro un corpo smembrato. La stampa scrisse che la chitarra elettrica di Cobain seguiva il testo di Burroughs in modo troppo letterale, piuttosto che contraddirlo, e definì il risultato non memorabile. Ma sul piano umano l’approccio tra i due fu più che amichevole. Cobain era un fan dello scrittore dai tempi del liceo e lo confidò al produttore discografico Thor Lindsay, che conosceva Burroughs e combinò l’incontro. «Aveva qualcosa di infantile, fragile e smarrito che mi attraeva - disse in seguito l’autore de “Il pasto nudo” - ma c’era qualcosa che non andava in quel ragazzo, si incupiva senza ragione».

            La concentrazione di melodia, irruenza e iconoclastia fu ciò che Cobain aveva in testa quando compose quella che nelle sue intenzioni doveva essere la canzone rock definitiva: “Smells like teen spirit”. Ispirato ai Pixies, il furioso gruppo di culto del post-punk che Cobain apprezzava per lo stile dissacrante e i brani spigolosi e frenetici cantanti in gergo spanglish, il brano scaturì dalla frase Kurt smells like teen spirit (che può essere tradotta in Kurt profuma di spirito adolescenziale) che Kathleen Hanna, un’amica dell’artista ospite una sera a casa sua, scrisse sul muro dell’abitazione. Cobain la prese come un complimento, pensando si trattasse di un modo carino di fargli sapere che lo riteneva ancora in possesso dell’energia ribelle di un giovane arrabbiato. Fu solo dopo aver registrato il pezzo che si rese conto di essere stato maliziosamente preso per i fondelli. Teen Spirit era infatti il nome di una marca di deodorante femminile per ascelle messo in commercio dalla Mennen. Eppure fu quell’episodio a fornire il titolo della canzone che ancora oggi, a quattordici anni dal drammatico suicido di Cobain, fa dell’angoscia una celebrazione.

            E sono distanti pure i giorni della foto dove Joe Strummer, il leader dei Clash, appare come uno scrittore che cattura la lingua del popolo di cui canta le canzoni. Nato in Usa dalle crepe di un suono nero ed aspro, il punk era diventato popolare in Inghilterra. Più in generale la scena americana, dai Ramones ai Talking Heads, appariva priva di una reale forma di impegno. Persino la bands inglesi avevano un’attitudine ambivalente rispetto le politiche degli anni Settanta. Nessuno tra i Sex Pistols e i Jam si avvicinava al radicalismo dei Clash; che al contrario, con la potenza delle loro liriche, svilupparono una coscienza nella cultura pop, determinando il movimento punk e mutando la percezione del senso comune.

            Gli ideali che continuano a motivare molti artisti contemporanei arrivano da quella stagione. Dall’ascolto di “London Calling” e da quello di “Sandinista”, in cui la voce di un’intera comunità celebrava il multiculturalismo e indicava le tappe successive; che avrebbe condotto ai libri agrodolci di Hanif Kureishi e alla ricerca senza frontiere di Nitin Sawney, figli del benessere e del Paki-pop. Nell’urlo di rivolta del punk riecheggiava dunque il sorriso del Buddha, fino al commiato dei versi di “Combat Rock” scanditi con Allen Ginsberg. Prima di morire, nel suo ultimo concerto a Londra, Joe Strummer ospitò sul palco l’amico Mick Jones ed insieme suonarono le canzoni del gruppo. Era un concerto di beneficenza per il sindacato dei pompieri. E’ stato detto: una delle cose più difficili da fare nel rock’n’roll è camminare come parli.

Vittorio Castelnuovo