martedì 6 gennaio 2009

Su Boris Vian




Nell’introduzione a “Musika & Dollaroni” di Boris Vian, che esce in queste settimane per Stampa Alternativa, Gianfranco Salvatore (che in passato aveva curato dello stesso autore e per il medesimo editore “Jazz! Rassegna stramba”) si impegna giustamente a rimarcare sia il valore del testo - pubblicato in Francia nel 1958, un anno prima la morte del drammaturgo avvenuta in un cinema di Parigi, col titolo “En avant la zizique…et par ici les gros sous” - sia la singolare vicenda dello scrittore. Una figura che nel nostro paese, nonostante l’attenzione dell’editoria grande e piccina, da Einaudi a Marcos y Marcos, non hai mai veramente suscitato l’interesse del pubblico. Eppure dovrebbero affascinare, anche se c’è chi afferma che gli ha nociuto proprio l’essere un dilettante di talento, le multiformi sfaccettature della sua frenetica avventura personale: ingegnere, romanziere, poeta, pittore, cantante, trombettista, critico musicale, attore, traduttore, esperto di fantascienza e direttore artistico di case discografiche.

Insieme ad altre figure di spicco della cultura nazionale dell’epoca tipo lo scrittore Raymond Queneau, la cantante Juliette Greco e il poeta Paul Eluard - di ben altra caratura rispetto quelle attuali, aspetto evidenziato da Jérome Garcin in “Nuovi miti d’oggi. Da Barthes alla Smart”, stampato da Isbn; del resto, la qualità di una società si misura pure dallo spessore dei suoi outsiders - Vian fu il protagonista della vita notturna della capitale francese durante gli anni Cinquanta, e l’animatore dei primi circoli di Patafisica (!) i cui esoterici principi parecchi anni dopo vennero declinati nel campo del musica giovanile dai Soft Machine. Il gruppo inglese che prese spunto da William Burroughs e per il quale la stampa di settore coniò appositamente l’espressione dada rock, per meglio definire la loro informale colonna sonora, del tutto inconsueta per gli standard del pop. L‘entusiasmo disarmante di Vian e la sua continua tensione utopica verso le alternative possibili, finirono così col toccare perfino la rivoluzione culturale portata avanti negli anni Sessanta dalla contestazione studentesca; più sensibile all’elogio del principiante, come a suo tempo ebbe a raccontare Ermanno Cavazzoni, che all’élite degli intellettuali, gettando virtualmente le basi per un significativo controcircuito.

Che in Vian fossero presenti un’autentica visione, alimentata da una passione che prescindeva il vantaggio utilitario, e contemporaneamente un’indicazione di una linea di resistenza e di svolta rispetto l‘imbroglio dello show business; ancora, che nel suo lavoro esistesse una componente suggestivamente e provocatoriamente rivolta al futuro dell’industria culturale, lo si deduce dalla lettura del libro, ben tradotto da Michele Vietri. Suddiviso in più di dieci capitoli - che hanno per argomento, tra le altre cose: la registrazione, il gusto del pubblico, i mezzi di comunicazione, il jazz e l’attualità della musica di consumo - il testo esprime sottotraccia il carattere della migliore narrativa di anticipazione; quando la denuncia dei meccanismi produttivi del mercato dell’arte, con particolare riferimento al mondo della canzone, viene allineata a quella del malcostume degli autori e degli interpreti e infine alla nefandezza dei critici. Colpevoli quest’ultimi di degradare ulteriormente la dimensione civica della collettività; abbassando, con il loro comportamento e le scelte effettuate, il livello dell’ascoltatore medio. «Il poco che occorre sapere, il critico di musica leggera generalmente non lo sa», scrive Vian. In un secondo momento e quasi preconizzando l’happening di Internet - basti pensare in generale al rapporto degli artisti con la Rete, e in particolare alla recente iniziativa di David Byrne e Brian Eno; il cui recente Cd, “Everything  That  Happens Will Happen Today”, è stato scelto direttamente dagli utenti, secondo modalità di forma e contenuto assolutamente personali, per tacere di analoghe decisioni prese da Elvis Costello e dai Radiohead - Vian aggiunge a questa forma di protesta la descrizione di un futuro possibile dove l’artista potrà pubblicare e gestire autonomamente la propria attività; ritrovare quel che di aperto e irrefrenabilmente anarchico può stimolare le esperienze più feconde e recuperare l’ostinazione e la perseveranza nello svolgimento del suo lavoro, andando molto aldilà del comune esercizio professionale e recuperando in questo modo l’esperienza della condivisione sociale. In un’occasione disse: «Una cosa eterna è una cosa di una certa importanza…non è quindi possibile prendere la canzone sotto gamba. Cosa resta della Rivoluzione francese se non Ca IraLa Carmagnole, la semplicissima Marsigliese, senza le quali ai nostri rappresentanti al governo sarebbe impossibile uscire, a testa alta e con passo elastico, da una seduta vergognosa».

Resta da aggiungere una riflessione. E cioè se il messaggio di Vian, davvero attuale nella sua denuncia - persino nella sua speranza; quando annuncia la libertà della radio come solo mezzo per riequilibrare il problema di una stampa non libera, e su questo toccherebbe impostare un altro capoverso… - trovi una ripercussione nello scenario italiano; che ha spesso scodinzolato dietro il modello anglosassone, sia sul piano artistico che su quello del marketing, e che da tempo è connotato da un autentico accanimento radiotelevisivo nei confronti della musica di qualità.

Ci sono ragioni storiche che spiegano queste contraddizioni, poiché da noi occuparsi di canzonette non è mai stato giudicato un mestiere vero e proprio. Il boom avvenne negli anni Cinquanta, sulla scia del successo del Festival di San Remo, e prese in contropiede il mondo dell’editoria, che non intuendone la portata sbagliò la valutazione considerandolo un interesse transitorio. Tuttavia sul momento bisognava soddisfare la curiosità degli utenti verso quella nuova area giornalistica; alla quale furono avviati, nel convincimento che il movimento di opinione sarebbe stato di breve durata, coloro che frequentavano le redazioni senza nessuna specifica competenza. Più o meno nello medesimo periodo fu commesso lo stesso errore di valutazione nei confronti del calcio, giudicato anch’esso un fenomeno di breve durata. Fu l’atmosfera del dopoguerra invece, con il desiderio della gente di dimenticare i dolori e le sofferenze, con il bisogno di tornare alla normalità e con la comparsa di una squadra fenomenale come il grande Torino, a consacrare il calcio come un elemento basilare della vita italiana. Tornando alla musica: l’idea era che parlare di Claudio Villa o di Modugno, di Mina o di Celentano, di Frank Sinatra o di Elvis Presley fosse una cosa che chiunque era in grado di fare. Sia pure sommariamente questo ci aiuta in parte a comprendere perché nel corso del tempo abbiamo avuto numerosi critici competenti di musica classica, di repertorio popolare, di jazz, di canzone politica - come Massimo Mila, Roberto Leydi, Michele Luciano Straniero, Gian Carlo Testoni, Arrigo Polillo, Sergio Liberovici, Diego Carpitella – e ben pochi di musica leggera. L’avvento nella seconda metà degli anni Settanta delle riviste specializzate, seguito da quello dei libri e delle radio indipendenti, sembrava avere creato un movimento, assegnato finalmente una prospettiva. La Rai ne aveva mano a mano preso coscienza ed aveva sviluppato un proprio stile; “StereoNotte” in radio, “Mister Fantasy” e “D.O.C.” in televisione. L’onda lunga degli anni Sessanta pareva aver trovato inoltre una nuova intonazione nell’impegno di editori come Savelli, GammaLibri, Lato Side, Stampa Alternativa, Arcana, che avevano individuato un canone originale nelle parole e nelle musiche nuove di quegli anni. Poi il brusco ridimensionamento a partire dagli anni Novanta; con le politiche discografiche, attuate dai principali network, esclusivamente rivolte alla musica di consumo ed un atteggiamento di radicale chiusura nei confronti delle proposte alternative. Fino a creare un mercato diviso i due parti: da un lato l’involucro vuoto delle canzoni in tv, con il triste primato di San Remo dove da tempo la discussione si anima solo riguardo la scelta del presentatore della rassegna, e dall’altro i canali sotterranei della musica non omologata, detentori di un capitale culturale sconosciuto alla società dei consumi e allo spettacolo mediatico.

 Mortificata da motivazioni mercantili (pure su questo prova a fare chiarezza l’agile volumetto “La discografia in Italia” di Luca Stante, da poco edito da Zona) la musica della gente, nella sua espressione più indipendente e seguendo proprio le indicazioni di Boris Vian raccolte cinquant’anni fa e profeticamente indirizzate verso l’inganno ai danni dell’immaginario collettivo, forse potrà persino rinascere dalle ceneri dell’omologazione. Celebrando il paradiso della comunicazione democratica, la ragnatela globale e cosmica del Web, come punto di ripartenza per agguantare tutto ciò che di dolce rimane nella vita.

Vittorio Castelnuovo