tag:blogger.com,1999:blog-49323770200512972542024-03-08T15:57:00.061-08:00i giradischiRivista Musicale a cura di Vittorio Castelnuovo"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comBlogger14125tag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-18866814635380524882009-01-06T00:00:00.000-08:002009-01-09T15:20:45.852-08:00Su Boris Vian<div xmlns="http://www.w3.org/1999/xhtml"><p style="text-align: center;"><br /></p><p style="text-align: center;"><br /></p><p style="text-align: center;"><object height="350" width="425"><param value="http://youtube.com/v/n3bBplDoM44" name="movie"><embed height="350" width="425" type="application/x-shockwave-flash" src="http://youtube.com/v/n3bBplDoM44"></embed></object></p><p><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family:'Trebuchet MS';font-size:13px;"></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;margin-right: 9.6pt; color: rgb(51, 51, 51); "><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255); "><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><br /></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;margin-right: 9.6pt; color: rgb(51, 51, 51); "><span style=" "><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">N</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">ell’introduzione a “Musika & Dollaroni” di Boris Vian, che esce in queste settimane per Stampa A</span><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">lternativa, Gianfranco Salvatore (che in passato aveva curato dello stesso autore e per il medesimo editore “Jazz! Rassegna stramba”) si impegna giustamente a rimarcare sia il valore del testo - pubblicato in Francia nel 1958, un anno prima la morte del drammaturgo avvenuta in un cinema di Parigi, col titolo “En avant la zizique…et par ici les gros sous” - sia la singolare vicenda dello scrittore. Una figura che nel nostro paese, nonostante l’attenzione dell’editoria grande e piccina, da Einaudi a Marcos y Marcos, non hai mai veramente suscitato l’interesse del pubblico. Eppure dovrebbero affascinare, anche se c’è chi afferma che gli ha nociuto proprio l’essere un dilettante di talento, le multiformi sfaccettature della sua frenetica avventura personale: ingegnere, romanziere, poeta, pittore, cantante, trombettista, critico musicale, attore, traduttore, esperto di fantascienza e direttore artistico di case discografiche.</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><o:p></o:p></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;margin-right: 9.6pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span></span>Insieme ad altre figure di spicco della cultura nazionale dell’epoca tipo lo scrittore Raymond Queneau, la cantante Juliette Greco e il poeta Paul Eluard - di ben altra caratura rispetto quelle attuali, aspetto evidenziato da Jérome Garcin in “Nuovi miti d’oggi. Da Barthes alla Smart”, stampato da Isbn; del resto, la qualità di una società si misura pure dallo spessore dei suoi outsiders - Vian fu il protagonista della vita notturna della capitale francese durante gli anni Cinquanta, e l’animatore dei primi circoli di Patafisica (!) i cui esoterici principi parecchi anni dopo vennero declinati nel campo del musica giovanile dai Soft Machine. Il gruppo inglese che prese spunto da William Burroughs e per il quale la stampa di settore coniò appositamente l’espressione </span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">dada rock</span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">, per meglio definire la loro informale colonna sonora, del tutto inconsueta per gli standard del pop. L‘entusiasmo disarmante di Vian e la sua continua tensione utopica verso le alternative possibili, finirono così col toccare perfino la rivoluzione culturale portata avanti negli anni Sessanta dalla contestazione studentesca; più sensibile all’elogio del principiante, come a suo tempo ebbe a raccontare Ermanno Cavazzoni, che all’élite degli intellettuali, gettando virtualmente le basi per un significativo controcircuito.</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><o:p></o:p></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;margin-right: 9.6pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span></span>Che in Vian fossero presenti un’autentica visione, alimentata da una passione che prescindeva il vantaggio utilitario, e contemporaneamente un’indicazione di una linea di resistenza e di svolta rispetto l‘imbroglio dello show business; ancora, che nel suo lavoro esistesse una componente suggestivamente e provocatoriamente rivolta al futuro dell’industria culturale, lo si deduce dalla lettura del libro, ben tradotto da Michele Vietri. Suddiviso in più di dieci capitoli - che hanno per argomento, tra le altre cose: la registrazione, il gusto del pubblico, i mezzi di comunicazione, il jazz e </span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">l’attualità</span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"> della musica di consumo - il testo esprime sottotraccia il carattere della migliore narrativa di anticipazione; quando la denuncia dei meccanismi produttivi del mercato dell’arte, con particolare riferimento al mondo della canzone, viene allineata a quella del malcostume degli autori e degli interpreti e infine alla nefandezza dei critici. Colpevoli quest’ultimi di degradare ulteriormente la dimensione civica della collettività; abbassando, con il loro comportamento e le scelte effettuate, il livello dell’ascoltatore medio. «Il poco che occorre sapere, il critico di musica leggera generalmente non lo sa», scrive Vian. In un secondo momento e quasi preconizzando l’happening di Internet - basti pensare in generale al rapporto degli artisti con la Rete, e in particolare alla recente iniziativa di David Byrne e Brian Eno; il cui recente Cd, “Everything</span></span><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">That</span></span><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">Happens Will Happen Today”, è stato scelto direttamente dagli utenti, secondo modalità di forma e contenuto assolutamente personali, per tacere di analoghe decisioni prese da Elvis Costello e dai Radiohead - Vian aggiunge a questa forma di protesta la descrizione di un futuro possibile dove l’artista potrà pubblicare e gestire autonomamente la propria attività; ritrovare quel che di </span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">aperto</span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"> e irrefrenabilmente anarchico può stimolare le esperienze più feconde e recuperare l’ostinazione e la perseveranza nello svolgimento del suo lavoro, andando molto aldilà del comune esercizio professionale e recuperando in questo modo l’esperienza della condivisione sociale. In un’occasione disse: «Una cosa eterna è una cosa di una certa importanza…non è quindi possibile prendere la canzone sotto gamba. Cosa resta della Rivoluzione francese se non </span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">Ca Ira</span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">, </span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">La Carmagnole</span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">, la semplicissima </span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">Marsigliese</span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">, senza le quali ai nostri rappresentanti al governo sarebbe impossibile uscire, a testa alta e con passo elastico, da una seduta vergognosa».</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><o:p></o:p></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;margin-right: 9.6pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span></span>Resta da aggiungere una riflessione. E cioè se il messaggio di Vian, davvero attuale nella sua denuncia - persino nella sua speranza; quando annuncia la libertà della radio come solo mezzo per riequilibrare il problema di una stampa non libera, e su questo toccherebbe impostare un altro capoverso… - trovi una ripercussione nello scenario italiano; che ha spesso scodinzolato dietro il modello anglosassone, sia sul piano artistico che su quello del marketing, e che da tempo è connotato da un autentico accanimento radiotelevisivo nei confronti della musica di qualità.</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><o:p></o:p></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;margin-right: 9.6pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span></span>Ci sono ragioni storiche che spiegano queste contraddizioni, poiché da noi occuparsi di canzonette non è mai stato giudicato un mestiere vero e proprio. Il boom avvenne negli anni Cinquanta, sulla scia del successo del Festival di San Remo, e prese in contropiede il mondo dell’editoria, che non intuendone la portata sbagliò la valutazione considerandolo un interesse transitorio. Tuttavia sul momento bisognava soddisfare la curiosità degli utenti verso quella nuova area giornalistica; alla quale furono avviati, nel convincimento che il movimento di opinione sarebbe stato di breve durata, coloro che frequentavano le redazioni senza nessuna specifica competenza. Più o meno nello medesimo periodo fu commesso lo stesso errore di valutazione nei confronti del calcio, giudicato anch’esso un fenomeno di breve durata. Fu l’atmosfera del dopoguerra invece, con il desiderio della gente di dimenticare i dolori e le sofferenze, con il bisogno di tornare alla normalità e con la comparsa di una squadra fenomenale come il grande Torino, a consacrare il calcio come un elemento basilare della vita italiana. Tornando alla musica: l’idea era che parlare di Claudio Villa o di Modugno, di Mina o di Celentano, di Frank Sinatra o di Elvis Presley fosse una cosa che chiunque era in grado di fare. Sia pure sommariamente questo ci aiuta in parte a comprendere perché nel corso del tempo abbiamo avuto numerosi critici competenti di musica classica, di repertorio popolare, di jazz, di canzone politica - come Massimo Mila, Roberto Leydi, Michele Luciano Straniero, Gian Carlo Testoni, Arrigo Polillo, Sergio Liberovici, Diego Carpitella – e ben pochi di musica leggera. L’avvento nella seconda metà degli anni Settanta delle riviste specializzate, seguito da quello dei libri e delle radio indipendenti, sembrava avere creato un movimento, assegnato finalmente una prospettiva. La Rai ne aveva mano a mano preso coscienza ed aveva sviluppato un proprio stile; “StereoNotte” in radio, “Mister Fantasy” e “D.O.C.” in televisione. L’onda lunga degli anni Sessanta pareva aver trovato inoltre una nuova intonazione nell’impegno di editori come Savelli, GammaLibri, Lato Side, Stampa Alternativa, Arcana, che avevano individuato un canone originale nelle parole e nelle musiche nuove di quegli anni. Poi il brusco ridimensionamento a partire dagli anni Novanta; con le politiche discografiche, attuate dai principali network, esclusivamente rivolte alla musica di consumo ed un atteggiamento di radicale chiusura nei confronti delle proposte alternative. Fino a creare un mercato diviso i due parti: da un lato l’involucro vuoto delle canzoni in tv, con il triste primato di San Remo dove da tempo la discussione si anima solo riguardo la scelta del presentatore della rassegna, e dall’altro i canali sotterranei della musica non omologata, detentori di un capitale culturale sconosciuto alla società dei consumi e allo spettacolo mediatico.</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><o:p></o:p></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;margin-right: 9.6pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span></span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">Mortificata da motivazioni mercantili (pure su questo prova a fare chiarezza l’agile volumetto “La discografia in Italia” di Luca Stante, da poco edito da Zona) la musica della gente, nella sua espressione più indipendente e seguendo proprio le indicazioni di Boris Vian raccolte cinquant’anni fa e profeticamente indirizzate verso l’inganno ai danni dell’immaginario collettivo, forse potrà persino rinascere dalle ceneri dell’omologazione. Celebrando il paradiso della comunicazione democratica, la ragnatela globale e cosmica del Web, come punto di ripartenza per agguantare tutto ciò che di dolce rimane nella vita.<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(0, 0, 0); font-family: Georgia; font-size: 16px; "><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:georgia;"></span></span></span></span></span></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right;margin-right: 9.6pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(0, 0, 0); font-family: Georgia; font-size: 16px; "><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:georgia;">V</span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:georgia;">ittorio Castelnuovo</span></span></span></span></span></span></span></span></span></span></p><p></p></div>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-27280514657257362222008-12-26T00:00:00.000-08:002008-12-26T15:21:47.257-08:00Sull'ascolto<div xmlns="http://www.w3.org/1999/xhtml"><p><object height="350" width="425"><param value="http://youtube.com/v/n3bBplDoM44" name="movie"><embed height="350" width="425" type="application/x-shockwave-flash" src="http://youtube.com/v/n3bBplDoM44"></embed></object></p><p></p><div style="text-align: justify;">N<span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">el suo recente libro “Breve storia del futuro”, edito da Fazi, mettendo insieme narrativa di anticipazione, approcci visionari ed osservazioni più attinenti la realtà, Jacques Attali ha indicato nel buon uso delle innovazioni tecniche e nella condivisione delle capacità creative la possibilità di migliorare la condizione umana, gettando le basi per la nascita di un’iperdemocrazia planetaria davvero a beneficio di tutti. Tra i più attivi intellettuali contemporanei Attali è stato in Francia una figura di spicco della sinistra, consigliere di Francois Mitterand e responsabile della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo; prima di accettare l’incarico offertogli dal presidente Sarkozy di dirigere la Commissioni sui freni della Crescita, di cui si è discusso anche nel nostro paese. <br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Se l’idea di partenza di sviluppare un rapporto più maturo con gli oggetti e i prodotti industriali, dal personal computer al telefono mobile, non rappresenta una novità assoluta - fermo restando l’urgenza delle implicazioni sociali sull’impatto della tecnologia nella trasformazione dei servizi collettivi tipo la sanità, l’educazione e la sicurezza - colpisce la riflessione sulla necessità di assegnare all’esperienza artistica un ruolo di primo piano. Di fatto l’arte ci insegna come molte cose, con le quali oggi conviviamo, in realtà siano già successe. Noi pensiamo per esempio che Mandela - la cui biografia, scritta dall’ex ministro francese della cultura Jack Lang, è appena uscita per i tipi di Piemme - sia stato un leader nuovo nella storia del pianeta. Eppure l’ultima opera di Mozart, “La clemenza di Tito”, racconta la vicenda di una figura simile la sua; che perdona le persone che hanno tentato di ucciderlo e cerca di creare un nuovo governo con chi voleva eliminarlo. Gli uomini di potere piuttosto che domandarsi a cosa serva l’arte, non considerandola realmente come una componente della vita pubblica, dovrebbero riflettere su come essa possa essere invece alla testa della democrazia. <br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Nel quadro di questa ricerca, dove i contenuti degli eventi sono analizzati su un piano insieme collettivo e profetico, è in particolare nella musica che Attali indica l’occasione di cogliere la diversità e l’attaccamento alla vita; la costruzione di uno spazio nuovo, inatteso e in qualche modo vicino all’attitudine del filosofo Gilles Deleuze, teorico della differenza e del movimento, che era affascinato dalla possibilità del cinema di dare attraverso le ombre e le luci un senso di realtà, capace di superare i limiti dello spettacolo e diventare gran teatro dell’esistenza. Da secoli la nostra cultura cerca di guardare il mondo; non ha capito, sembra volerci dire l’autore, che il mondo non si guarda, si ascolta. Sono parole potenti che ancora adesso aprono un cammino all’esplorazione dell’irrazionale, sviluppano un’ombra filosofica e creano un flusso nomade del desiderio, ma che Attali aveva già messo insieme e pronunciato. Quando, nel 1977, scrisse “Rumori”; un pamphlet sull’economia della musica che suscitò parecchio scalpore, pure in Italia dove fu pubblicato da Mazzotta, dove decifrava il suono come uno dei luoghi in cui cominciano i mutamenti e attraverso il quale si può capire meglio quali speranze siano ancora possibili. <br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Se esista dunque un modo di ascoltare tipico della nostra età e in quali forme a partire dalla fine del Novecento esso si sia affermato, è un interrogativo che si sono posti molti pensatori. E’ stato il filosofo Mario Perniola ad inaugurare questa indagine; dando alle stampe per Einaudi nel 1991 “Del sentire”; ed individuando nel passato remoto dell’Occidente, quello dell’antichità classica, un’opportunità di percepire radicalmente opposta a quella attuale e anonima del già sentito. Un’interpretazione alternativa al palinsesto sensologico che conosciamo e inseparabile dall’esercizio della filosofia; in grado di soddisfare il desiderio di conoscenza e di costituire altresì una guida per l’azione, convocando le grandi opzioni del pensiero moderno fino all’amore del mondo.<br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">In una direzione parallela si inscrive l’approccio del filologo Maurizio Bettini che in “Voci”, uscito per Einaudi, ha raccolto un’antropologia sonora del mondo antico. Persino commuovente nel ricreare una fonosfera popolata da lupi e lepri, miti dolorosi di usignoli e rondini, merli romani, francolini greci, upupe siciliane, pettirossi francesi; combinati con il colpo di martello dei fabbri, lo strepito delle macine dei mugnai, il cigolio dei carri e il suono della frusta. Risuonano così i canti degli uccelli, le grida degli animali e le lontane parole degli uomini. Voci che gli antichi consideravano messaggi di buono o cattivo augurio; capaci di predire il futuro, annunciare la nuova stagione e persino di resuscitare antiche leggende come di fornire ai musicisti e ai poeti un castello di memorie sonore, all’interno del quale scovare occasioni precedentemente ignorate di conforto.<br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Una presa di posizione sull’inciviltà del rumore arriva invece da Gillo Dorfles, che in “Horror pleni”, edito da Castelvecchi, si scaglia contro la saturazione del mondo dei media. Il critico d’arte si domanda se in un’epoca satura di segnali; mortificata dalla pubblicità e dalla propaganda politica; stordita dalla produzione incontrollata di letteratura, arte e moda; e che nel frattempo ha perduto la memoria degli interminati spazi e dei sovrumani silenzi delle origini, sia possibile mantenere una consapevolezza. Con il loro groviglio di messaggi, creature virtuali ed eventi immaginari, i nuovi orizzonti dell’espressione digitale minacciano di tagliarci fuori dal divenire della cultura e di distorcere il nostro gusto. Eppure Dorfles ci invita lo stesso ad attraversarli, impegnandoci a riempirli di senso ed opponendoci a questa catena di eccessi con ogni nostra capacità informativa e comunicativa; mantenendo così inalterate, pure nel cambiamento, la nostra umanità e la nostra libertà, pure se questo passo rischia di comportare una maggiore insicuezza. <br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Rispetto questa analisi si spinge oltre, prefiggendosi persino un obiettivo politico, Stuart Sim, che insegna Teoria critica presso la Università of Sunderland in Scozia e del quale Feltrinelli ha edito “Manifesto per il silenzio”. Dove - partendo dalla svalutazione del linguaggio; dagli effetti del rumore sul pensiero e sui comportamenti; e dall’abbandono delle città da parte di strati importanti delle classe medie, sulla falsariga delle visioni dello scrittore inglese James Ballard - egli intravede nella quiete il solo mezzo per sviluppare una reale attitudine critica, arrivando inoltre ad ipotizzare come le sorti della democrazia dipendano dalla difesa di questo diritto.<br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Epicentro di tragitto è stato il contributo reso dallo studioso canadese Marshall McLuhan. Professore di letteratura inglese, lettore appassionato della tradizione classica ed estimatore del modernismo angloamericano, McLuhan si affermò come guru dei mass media durate gli anni Sessanta; per aver esplorato l’approccio attraverso il quale i mezzi di comunicazione riconfigurano l’ambiente e condizionano la psiche umana; e per aver collegato, proprio grazie alla tradizione umanistica, la percezione del processo poetico della letteratura e delle arti, in una strategia privilegiata per far adattare l’utente al mondo contemporaneo. Nel 1969 lo studioso ebbe a dichiarare: «L’alfabetismo ha estromesso l’uomo dalla tribù, gli ha dato un occhio al posto dell’orecchio ed ha sostituito il suo sentimento di appartenenza collettiva, totale e in profondità con i valori visivi e lineari e con una conoscenza frammentaria. Di qui un possibile nota di ottimismo. Se la civiltà elettronica esalterà di nuovo l’orecchio, il senso della vicinanza, vi è qualche speranza che le divisioni possano attenuarsi». <br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Da questa riflessione ha preso inizio il ragionamento di Michael Bull e Les Back in “Paesaggi sonori”, stampato da Il Saggiatore. Se vista e udito hanno un ruolo parimenti decisivo nella comprensione del mondo, ricordano i due ricercatori, il campo visivo ha sempre dominato i dibattiti sull’esperienza culturale. Finora infatti l’approccio con cui entriamo in relazione col mondo e lo pensiamo è sempre stato influenzato più dalla vista che dall’udito. Combinando sociologia, cultural studies, filosofia, antropologia, geografia urbana e musicologia, il saggio evidenzia questa rivalità, svelando invece quanto la vicenda acustica abbia inciso nella nostra esistenza. I rintocchi dei campanili dei villaggi nei comuni francesi, le processioni protestanti nell’Irlanda del nord, le dinamiche della vita d’appartamento accompagnate dai suoni della radio in Gran Bretagna, le passeggiate metropolitane con la musica in cuffia nelle città europee, le feste reggae, le manifestazioni politiche e i rituali religiosi. Dal suono evocativo delle campane di paese al chiasso stridente del traffico stradale, ciò che udiamo modifica i nostri stati d’animo e le nostre azioni. Oltretutto con l’avanzare della tecnologia, il mondo è diventato sempre più rumoroso e inquietante, e per difenderci dai rumori siamo andati alla ricerca di nuovi suoni in grado di calmarci, proteggerci e alleviarci. Esaminando i rumori della città, i suoni e le voci, il saggio assegna all’esperienza acustica un ruolo definitivo in ambito storico e sociale. L’impatto violento dei tafferugli della Belfast divisa, quello ancestrale delle cerimonie tribali fra i nativi d’America, il frastuono urbano nella Londra del Seicento, il potere ammaliante della voce dei dj, quello persuasivo dei leader politici; tutti insieme offrono inediti punti di vista su cosa significhi conoscere il mondo attraverso il suono ed invitano a pensare con le proprie orecchie. Ci suggeriscono come ogni giorno regoliamo lo spazio e il tempo tramite il suono. Perché l’orecchio è senza difese e l’uomo è sempre in ascolto.<br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Se dunque la concezione della vita pare essersi frantumata, non essere più riconducibile a un’immagine coerente e sollecitata piuttosto da numerose altre trame teoriche, è la riflessione attorno al presentire che orienta oggi il lavoro di molti pensatori. Essa proviene nel Novecento da opere non direttamente connesse con l’estetica; eppure necessarie, toccando l’ambito degli affetti e delle emozioni, per la ridefinizione delle attuali forme di conoscenza. Così non sorprende che il filosofo francese Peter Szendy ripercorra la disciplina della sorveglianza uditiva in “Intercettare”, uscito per Isbn, ricostruendo una sorta di archeologia dell’origliare, dalle tecnologie primitive fino ai computer, e ripercorrendone la rappresentazione artistica dalla Bibbia a Hitchcock fino a David Lynch; inclusa la citazione della magistrale messa in scena di Francis Ford Coppola ne “La conversazione”, il film sulla sorveglianza girato nel 1974 al tempo del Watergate. A metà strada tra una mistica dell’ascolto e una bizzarra fenomenologia dello spionaggio, la volontà di Szendy appare quella di nutrirsi del nesso contraddittorio tra vedere e sentire, alimentando in questa maniera l’idea della scrittura come possibilità per imparare ad ascoltare. Nel significato della sua ricerca si intrecciano un lessico di ispirazione filosofica, con una forte connotazione visiva, ed un’originale commistione di punti di osservazione. Seguendo l’esempio di Jacques Derrida, il filosofo della decostruzione che con infinita tenacia ha ripensato la problematica dell’opposizione e dell’alterità, Szendy gioca con il proprio ruolo di osservatore e testimone, all’interno dell’esterno e viceversa; non smettendo di generare doppiezza, duplicità e duplicazione e condensando semmai il passato e il futuro in un tempo che li confronta sul limite del pensiero presente. <br /></span></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Il messaggio di questi libri ci dice come non si possa più giungere alle nozioni sulle quali poggia la sensibilità contemporanea esclusivamente attraverso il ragionamento e l’azione. Per molti teorici esse richiedono un sentire differente, del tutto straniante, rintracciabile in un’esteriorità più misteriosa, in una scrittura impronunziabile, in una ritualità incomprensibile, in inediti processi di comunicazione, oppure nelle vaste sfumature dell’universo femminile. La donna infatti non è il segno di un ordine stabilito ma la traccia di tutte le minoranze e di ogni possibile linea di fuga, esprimendo una volontà differente dell’agire nella vita. E’ il dialogo con lei declinato nella letteratura, nel metodo, nella psicanalisi, che fornisce alla diversità una chance, mutando la mediazione in una sperimentazione e infine in una composizione. Queste istanze, aggiungendosi a quelle già note della politica, della scienza e della comunicazione, fanno compiere al sentire una svolta. Sulla cui portata dobbiamo interrogarci, perché il significato della loro differenza le trasforma in qualcosa che ancora non sappiamo. Eppure ne avvertiamo la forza necessaria per cambiare il nostro modo di desiderare il mondo.</span></span></span><br /></div><br /><div style="text-align: right;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;">Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></div><p></p></div>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-7943821463776159172008-09-01T00:00:00.000-07:002008-09-01T16:39:53.172-07:00Intervista a Philip Glass<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family:'Trebuchet MS';font-size:13px;"><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Fino ai primi anni Ottanta Philip Glass non aveva ancora restituito la licenza di tassista, poiché essa gli forniva l’unica possibilità di guadagno. Eppure in quel periodo egli si era già affermato come il maggiore esponente della musica minimalista; la corrente che nella seconda metà dagli anni Sessanta, ispirandosi ai codici espressivi della musica orientale, aveva svelato le prospettive dell’avanguardia a frangie di appassionati provenienti dal rock. Durante il decennio successivo Glass aveva meglio definito la sua pozione, pubblicando dischi considerati di riferimento per l’orizzonte della musica contemporanea come “Einstein On The Beach”, il commento musicale dell’omonimo spettacolo teatrale di Bob Wilson, e come “Music With Changing Parts”, una delle opere che meglio esprimono il suo misterioso messaggio musicale.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Glass suonava nei giardini pubblici, nelle biblioteche e nelle sale da thé, contribuendo a quella </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">rinascita</span></span></span></i></span><span style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">newyorkese che nello stesso periodo produceva le fotografie di Robert Mapplethorpe, la new-wave di Patti Smith e dei Talking Heads, i film di Martin Scorsese, creando un canone del tutto inedito per gli standard della cultura pop. Erano gli anni Settanta e New York era diventata, come forse non le era capitato neppure nel decennio precedente nonostante figure come Bob Dylan e Andy Warhol, la capitale culturale del mondo moderno.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Applicando quella duttilità che si riscontra nel lavoro di molti artisti anglosassoni, Glass ha affrontato nel corso della sua vicenda numerose esperienze (per mettere ordine nella sua immensa discografica, puntellata dalla recente ristampa del fondamentale “Music In Twelve Parts”, consigliamo la consultazione del sito www.evolutionmusic.it); incidendo albums di solo piano; dirigendo ensemble orchestrali, con i quali ha forse raggiunto i suoi risultati migliori; scrivendo brani per la performer Laurie Anderson e per il cantautore Paul Simon; producendo gruppi come i Polyrock; componendo le musiche per “Kundum” di Martin Scorsese e per la riedizione di “Dracula”, affidando le sue partiture al Kronos Quartet; collaborando con il poeta Allen Ginsberg all’allestimento di “Hydrogen Jukebox”; penetrando nella seducente dimensione dei </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">raga</span></span></span></i></span><span style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">indù insieme a Ravi Shankar, e assimilando così il metodo di armonie stazionarie che sostituivano le antiche modulazioni e il contappunto appresi da ragazzo nelle scuola di Parigi di Nadia Boulanger; lavorando per il teatro curando spettacoli di estrema originalità come quelli dedicati all’artista francese Jean Cocteau; firmando un omaggio a David Bowie e Brian Eno, orchestrando i loro due classici dischi “Low” e “Heroes”, e valorizzando in questo modo la sintesi tra arte e destino così felicemente descritta dai due musicisti; infine concependo il ciclo di canzoni di “Book Of Longing” con Leonard Cohen, derivandone un disco e uno spettacolo che ha portato pure nel nostro paese.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Come diversi altri esponenti della scena statunitense - da John Coltrane a Keith Jarrett, dallo stesso Leonard Cohen fino a Wayne Shorter - anche Glass è rimasto ammaliato da quel percorso di moltiplicazione dei sensi e dei rinvii che l’Oriente espande e dissolve. Ed è all’interno di questo percorso, che la studiosa Annette Michelson ha chiamato </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">l’ultima fermata dell’uomo nel viaggio verso la liberazione del corpo e del rinnovamento</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">, che va individuato il senso della sua ricerca. L’unico della sua generazione che sia riuscito, partendo da un settore discografico all’epoca inesistente in termini di mercato, a diventare un’autentica vedette. E lasciando dietro di lui, almeno in termini di popolarità, artisti altrettanto bravi - c’è chi dice persino più bravi - come Steve Reich e Terry Riley.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Il pubblico conosce e apprezza la sua musica. In realtà c’è un aspetto della sua personalità altrettanto importante: il rapporto con la letteratura, filtrato dall’amicizia con Allen Ginsberg.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG:</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Mi fa piacere parlare di Allen, soprattutto oggi che non c’é più. Ci conoscevamo da anni, ma solo nell’ultima parte della sua vita abbiamo cominciato a lavorare insieme. E’ importante rilevare che lui aveva dieci anni più di me: quando io venni a New York lui aveva trent’anni e io ne avevo venti, e quello era il periodo in cui lui faceva i readings</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">nelle università e faceva anche spettacoli dal vivo. Io lo seguivo in questi spettacoli, però mi sono avvicinato a lui per lavorare insieme soltanto alcuni anni dopo. Il primo che ho conosciuto del gruppo della beat-generation è stato William Burroughs. L’ho conosciuto a Parigi nel 1965. Erano una generazione di persone un po’ più anziane di me; un gruppo di persone dedite alla letteratura, e siccome lavoravo nel campo della musica non avevamo molte occasioni di lavorare insieme.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Dunque la realizzazione di “Hydrogen Jukebox” rappresenta un motivo di soddisfazione.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Esatto. Fui io che proposi ad Allen di mettere in musica dei brani tratti da quel lavoro. In quel periodo abitavamo nello stesso quartiere, ci vedevamo spesso, facevamo spettacoli insieme e progettavamo di fare altre cose per il futuro. L’idea base del progetto con Ginsberg era nata perché io volevo fare una specie di ritratto dell’America; apprezzavo Allen come artista ed ero convinto che fosse il migliore scrittore ad essersi occupato di problemi sociali negli ultimi trent’anni. Passammo dei mesi a leggere le sue poesie e alla fine arrivammo a selezionare circa venti componimenti. Quello che facevamo era semplicemente metterci lì a leggere poesie e, quando ne ritenevamo una particolarmente interessante, la segnavamo. Fu allora che scegliemmo alcuni argomenti come il movimento per la pace, l’ecologia, la discriminazione sessuale, la corruzione nel governo.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Individuando delle tracce…</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Sì, questi erano gli argomenti pubblici, ma c’erano anche argomenti più privati. Per esempio nella poesia “Howl!” c’erano temi pubblici, ma espressi in modo molto personale, e in generale tutti questi argomenti coprivano un periodo che andava dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta. Scrissi tutta la musica una volta che ero in Brasile e tornato in America decidemmo sul modo di metterla in scena. Si trattava di diciannove pezzi; non c’era un vero filo conduttore tra le varie canzoni, erano delle storie messe insieme. Poi andammo in tournée negli Stati Uniti e in Italia, al Festival di Spoleto. Il risultato finale del lavoro teatrale mi è piaciuto molto, ancora oggi mi piace, ma penso che sul pubblico abbia avuto un impatto troppo intellettuale. Non ha avuto per esempio quel richiamo popolare che ha avuto “La Bella e La Bestia” di Cocteau.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Le cose sono molto cambiate da quando ha cominciato.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Sì, certo. Ho cominciato a lavorare alla fine degli anni Sessanta e allora non c’era un grande pubblico; però facevo concerti continuamente dappertutto in America, anche in gallerie d’arte o spazi per studenti di università. Non avevo mai la sensazione di essere isolato, perché suonavo ed avevo sempre del pubblico con me.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Ma il senso di isolamento è stato in passato un problema.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Forse, trent’anni fa venni qui in Italia per la prima volta, mi esibii a Roma. Ho tanti ricordi. Se non avessi fatto il lavoro che faccio, se avessi soltanto insegnato, allora in quel caso mi sarei sentito isolato, sarebbe stato un problema. Oggi faccio in media trenta concerti all’anno; a questo punto sono circa un migliaio di concerti, non riesco più a contarli. Ho sempre avuto la sensazione che c’era un pubblico ad ascoltarmi, è diventato sempre più grande nel tempo. Durante i primi dieci anni il pubblico era composto da poche persone; fu alla fine degli anni Settanta che cominciò ad essere più numeroso.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Lei parla dell’isolamento pure da un altro punto di vista.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Sì, è così; volevo accennare all’isolamento culturale. Negli Stati Uniti abbiamo un problema che non so se sia presente in Europa. Da una parte esiste una società di massa, e la società di massa non è assolutamente interessata all’arte. Anche quando si parla di ‘mainstream artist’ , cioé di artisti che vanno appunto con la corrente, questi spesso non rientrano in uno schema di cultura popolare. Quando si parla di cultura di massa in America si intende la televisione, gli sport e in generale gli spettacoli di intrattenimento. In America è accaduto che la cultura è diventata intrattenimento e si tende a confondere le due cose per cui il valore di un artista si basa sulla capacità: la sua capacità di intrattenere il pubblico. Questo fa perdere il valore artistico della persona, e questo sta diventando un problema internazionale, non più soltanto un problema americano. Certo l’arte dovrebbe anche intrattenere e l’opera è proprio il campo in cui arte e intrattenimento vanno di pari passo. Voi italiani appartenete ad una tradizione in cui arte e intrattenimento sono sempre andati insieme. Sono i casi appunto di Verdi, di Puccini. Però oggi arte e intrattenimento sono stati separati. Oggi l’intrattenimento si fa per soldi e l’arte è per poche persone. Chiaramente questo porta ad una situazione pericolosa.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Intende battersi per sconfiggere questa minaccia?</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Alcune delle mie opere recenti come “Juke-box all’idrogeno” o “La bella e la bestia” offrono di nuovo questo valore: arte e intrattenimento vanno di pari passo insieme. Come si può vedere ci sono molte persone giovani ad assistere ai miei spettacoli; nei prossimi anni raggiungeremo una media di novata esibizioni l’anno. Comunque bisogna dire che non tutti hanno il carattere per farlo, ci vuole una certa facilità di comunicazione con le persone e anche una dose di disponibilità. Alcuni artisti non ne hanno affatto. Tu mi hai accompagnato tante volte in giro per l’Italia; quante volte mi hai visto arrivare in una città, andare in una libreria per un incontro pubblico, suonare il piano e parlare con le persone? Tutte cose che io faccio volentieri e abbastanza spesso.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Nel suo comportamento si riscontra un carattere americano.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Sì, ma non del tutto. Vedi, ci sono artisti che non vogliono abbandonare lo studio, ci possono essere vari motivi dietro questo atteggiamento. Magari sono stanchi o sono arrabbiati o si sentono soli, non lo so. Del resto io credo che noi artisti abbiamo una grossa responsabilità. Per esempio se guardiamo al mondo del cinema, ogni volta che un film esce, la settimana seguente sul giornale troviamo scritto quanti soldi ha fatto il film. I giornali parlano di milioni di dollari, ma non dicono assolutamente se il film è buono o no. Al pubblico che legge il giornale che cosa importa se Spielberg ha guadagnato venti o trenta milioni di dollari, l’incasso del film diventa il metro di valutazione del lavoro e questo è un modo molto pericoloso di pensare. Non si discute sul fatto che, per esempio, “Jurassic Park” era o non era un bel film, quello che importa è che ha guadagnato cento milioni e questo è pazzesco. Si arriva al punto che, se un film esce nel primo fine-settimana e non ha guadagnato abbastanza soldi, viene ritirato; e questo succede anche ai libri, ai dischi e all’arte in genere. Ripeto, è una situazione molto pericolosa. Credo che dal punto di vista culturale l’America è ancora oggi un paese molto importante. Certo io sono critico nei confronti dei vari aspetti della società americana, ma dal punto di vista artistico è sicuramente il posto migliore in cui lavorare, senz’altro uno dei paesi più aperti nei confronti delle sperimentazioni e della maggior parte delle avanguardie che vengono realizzate soprattutto là. Inoltre c’è una grande dose di energia e siccome gli artisti non prendono sovvenzioni né dal governo, né dalle grandi corporazioni, essi tendono ad essere indipendenti e, d’altra parte, l’indipendenza è un fattore fondamentale nell’arte e io trovo che gli artisti americani sono tra i più indipendenti.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></i></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>E’ una posizione in contrasto con il polemico teorema di Gore Vidal; secondo il quale ogni artista americano, per il semplice fatto di far parte di una grande potenza, automaticamente diventa un grande artista.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Per quanto riguarda la questione della grande potenza, per me la questione oggi sta in termini di lotta economica. Quello che conta veramente è il potere economico e le forze che lo rappresentano. Credo che sarebbe un errore sottovalutare la creatività, l’energia degli artisti americani. Io viaggio molto,</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">vedo parecchie cose e ho avuto modo di rendermi conto che noi artisti americani abbiamo una visione più indipendente della storia, non abbiamo sulle spalle il peso della storia che può avere un artista europeo. Quand’ero giovane mi sono ribellato ai modelli educativi che avevo davanti a me e questo dev’essere senz’altro più difficile per un artista europeo. Per noi artisti americani è più facile e quindi ci sono dei caratteri che trovo fantastici nell’America ed altri che trovo invece terribili. Mio figlio una volta mi ha detto, quando aveva sedici anni, parlando di New York: “Sai, babbo, New York è senz’altro il posto più bello e più tremendo del mondo”. E io gli ho risposto: “Bene, mi fa piacere che tu l’abbia capito”. Quindi, tornando al punto di prima, noi artisti non prendiamo sovvenzioni dal governo, non prendiamo più molte sovvenzioni dalle corporazioni e, d’accordo, alcuni di noi hanno soldi, circa il 30-40% degli artisti hanno i genitori ricchi.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Per lei invece è stata più dura.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG:</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Per quanto riguarda me io ho avuto degli ottimi genitori, ma mia madre era un’insegnate di scuola, quindi non avevamo molti soldi, perciò la maggior parte di noi doveva lavorare ed io, ad esempio, fino ai quarant’anni ho fatto dei lavori saltuari. Ho spostato mobili, ho guidato taxi, ho lavorato nei cantieri edili, e questa è una cosa molto normale per noi. Quindi dovevo scrivere la musica di notte, ma era una cosa abbastanza normale: quando a New York si va in un ristorante ci sono buone possibilità che il cameriere che ci sta servendo sia uno scrittore o un attore.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></i></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Questa indipendenza ha dunque un risvolto economico.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Infatti. Per esempio quando ho fatto “La bella e la bestia” l’ho finanziata da solo, facendo concerti. Non ho avuto denaro da nessuno; il denaro è venuto da fonti diverse, dai soldi che ho preso per i concerti di piano, dalla casa discografica quando ho inciso il disco dell’opera. Inoltre avevo ancora denaro che mi era avanzato dalla tournée precedente. Quando si può contare solo sulle proprie forze, si prende il proprio lavoro con grande impegno e con grande dedizione. Coloro che non hanno l’impegno sufficiente per ricorrere alle proprie risorse e che non prendono il loro lavoro con grande dedizione, non hanno abbastanza energia, hanno chiuso, sono finiti. Le cose stanno così, non c’è più niente da fare. Il vantaggio di essere così indipendenti è che si può criticare chiunque, perché nessuno mi ha dato niente in fondo.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Come è cambiata la scena musicale in tutto questo tempo?</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Fra gli artisti minimalisti c’è stata una certa coesione fino alla metà degli anni Settanta. Oggi c’è molta più diversità e comunque la musica, le tendenze musicali, tornano ad orientarsi verso l’esplorazione della tonalità e comunicazione con il pubblico. I compositori dodecafonici degli anni Sessanta non erano interessati a queste cose; mentre la mia generazione ha mostrato più interesse per questi atteggiamenti. E in generale anche adesso sono più interessati al pubblico, a trovare un linguaggio comune, un linguaggio che comunque riesca a valutare la tonalità della musica, il linguaggio tonale. Tra i nuovi compositori c’è un grande interesse per l’improvvisazione. Ed esiste una generazione di compositori che sono interessati per esempio al jazz. Penso a John Zorn o a Bill Frisell.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Che sono effettivamente molto bravi…</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Il linguaggio dei compositori che adesso sono fra i trenta e i quarant’anni è completamente diverso dal mio e tra di loro ci sono dei tipi veramente interessati. Questa generazione ha delle grandi potenzialità, come appunto John Zorn o Bill Frisell. Faccio solo dei nomi, perché sono diversi da noi, però quello che è interessante è che c’è un bel rapporto tra le nostre generazioni. Loro vengono ai miei concerti ed io vado ai loro e ci sono sempre molte cose di cui parliamo; ci sono argomenti come le compagnie discografiche, le compagnie teatrali o i giornalisti che incontriamo: non ci mancano mai gli argomenti da trattare.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Lo scenario è cambiato rispetto a prima.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: La sensazione è che ai nuovi compositori non importi più tanto della musica minimalista, credo che la cosa più importante adesso sia la nascita del teatro musicale, l’emergere di un nuovo genere nel teatro musicale. Gli elementi interessanti che connotano le tendenze musicali attuali sono l’improvvisazione e l’integrazione tra arte popolare e arte musicale. Altri elementi interessanti sono gli esperimenti con le nuove tecnologie.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Anche in questo che lei dice c’è un carattere americano.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Da ragazzo ho lavorato in un negozio di dischi, avevo dodici anni. Il proprietario del negozio era mio padre. Ascoltavo di tutto, dalla musica classica al genere popolare, non il rock, perché allora non esisteva ancora: ricordo bene quando alla metà degli anni Cinquanta uscirono i primi dischi di Presley, mi ricordo quando li vendevo ed ero curioso di sapere che roba era quella che la gente stava comprando. Poi più tardi a New York c’era un ambiente molto fluido musicalmente; ho sentito tanti concerti dal vivo. Ho sentito Billie Holliday, Ben Webster e, più tardi, sono andato a sentire John Coltrane e Bill Evans. Anche se poi ho scritto un genere diverso, quando mi sono messo a comporre musica, la musica jazz faceva parte del mio mondo.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></i></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Di fatto lei appartiene all’arte contemporanea.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: E’ così, ci sono tanti musicisti pop che mi hanno chiesto di aiutarli. Ci sono per esempio vari musicisti che non riescono a comporre la musica, io li ho sempre aiutati, mi piaceva aiutarli e così è stato anche un modo per conoscere la loro musica. Tempo fa ho lavorato con Marisa Monte e in genere sono questi musicisti che mi chiamano al telefono e mi chiedono: “Philip, puoi darci una mano?”. E in genere non dico mai di no. In media non ho più collaborato con un artista all’anno, ma col passare degli anni ho conosciuto tantissimi artisti. Ho lavorato con Paul Simon, con David Bowie, perciò adesso, quando guardo al mondo della musica, esso non mi pare solo popolato da cantanti, da pianisti o da direttori d’orchestra, ma so che ci sono anche altri compositori. Per cui ho una visione allargata del mondo della musica e mi succede che quando vado in un club o entro in uno studio musicale non mi sento mai un estraneo. E questo mi piace.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Per molti ascoltatori la sua musica conserva un’anima malinconica. Avverti anche lei questa sfumatura?</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Ci sono altre persone che mi hanno detto questa cosa o che si chiedono come mai io sembri una persona così felice e la mia musica suoni invece così triste. Ma la tristezza dipende anche dai temi che io scelgo. Del resto sono io che scelgo gli argomenti della musica; bisogna osservare che quando un artista ha raggiunto il pieno controllo dei propri mezzi e ha, per così dire, imparato il mestiere, insomma ha raggiunto la piena maturità, a quel punto l’arte diventa soltanto un riflesso dell’artista.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Lei è un uomo molto pratico. Ricorda una battuta di David Bowie: «Quando una cosa funziona, buttala».</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Non sapevo che David Bowie avesse detto una cosa del genere e comunque sono d’accordo. Anch’io sono delle opinione che quando qualcosa funziona non andrebbe mai ripetuta. Per esempio “Einstein on the beach” era un pezzo molto famoso, ma non ho mai voluto ripeterlo. A volte mi sono detto che non mi dispiacerebbe ripetere i miei insuccessi, ma non ripeterei mai i miei successi. Non ho molta fedeltà verso me stesso. A volte dico che il primo problema che ha un compositore è quello di trovare una voce e il secondo è quello di sbarazzarsene. Più avanti si va con gli anni e più lavoro si ha e il problema diventa sempre più grosso. In realtà io non cerco un’identità, ma semmai il contrario. Il risultato finale però è trovare la propria identità. E funziona proprio così: più si sfugge a se stessi e più si trova se stessi. Non so come spiegarlo, è un paradosso, ma è così.</span></span></span></i></span><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></i></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Le piace la scena culturale attuale?</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Prima di tutto direi che la cultura, e se per cultura intendiamo la scrittura, la musica, la pittura, le arti visive, per essere viva deve continuare a rinnovarsi. Quando noi guardiamo alla cultura contemporanea, questo è quello che accade: è una cultura in evoluzione ed è una forma di espressione che cerca di parlare il linguaggio del mondo in cui viviamo oggi. Quegli artisti che riescono a portare elementi di freschezza e novità all’interno di questo mondo sono molto preziosi per noi. E possono venire da qualsiasi luogo, possono essere i Beatles, Dylan o John Cage, e immediatamente dire qualcosa che è incredibile, così potente che ci abbraccia. Non è sempre vero che subito ci lasciamo affascinare: mi ricordo che, quando ero giovane e vidi per la prima volta il lavoro di Jackson Pollack, ne rimasi davvero scioccato. Lo stesso accadde per Allen Ginsberg. Rimasi scioccato, ma era anche molto chiaro che quella gente stava parlando con una voce che era davvero molto autentica. E lo shock è importante per noi, perché è un modo di svegliarci rispetto al mondo nel quale stiamo vivendo.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Qual’è la dote più importante per un artista: la curiosità?</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Sicuramente la curiosità è importante, ma c’è una cosa che è ancora più importante ed è l’onestà, l’onestà dell’artista che dice le cose nelle quali realmente crede, anche nei casi in cui lo stesso artista sia esso stesso sorpreso di ciò che ha fatto. E allora arriviamo all’idea di coraggio. Abbiamo raggiunto i tre punti che sono: la curiosità, l’onestà e il coraggio, i tre elementi importanti, i tre cardini del processo creativo. E non sono gli unici, ve ne sono altri. E’ interessante vedere comunque come si passi attraverso questi tre elementi che sono comuni ad esempio a Pollock, alle prime cose di Dylan o John Cage, persone che apprezzo e stimo.</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Infatti li menziona spesso.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Il motivo principale per cui ho scritto opere come “Eknathon”, “Gandhi” o “Einstein on the beach” era l’aver individuato dei personaggi che hanno cambiato il mondo in modo pacifico e che soprattutto hanno cambiato il mondo attraverso le idee. Così John Cage. Io amo molto il suo lavoro, l’ho conosciuto di persona. Quello che lui ha insegnato è guardare la musica anche stando in un auditorium in una maniera diversa. E questo sicuramente rimarrà anche se continueranno ad esserci gli auditorium e gli organizzatori di concerti. Molti mi chiedono dove ho preso le idee per queste tre opere. E’ stato raccontare un pezzo della mia vita e come queste tre opere appartengano fortemente alla mia vita.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></i></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Oggi che definizione darebbe del suo lavoro?</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; line-height: normal; "><span style=""><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>PG: Il linguaggio che mi è più consono è quello della musica. Ciò nonostante il parlare della musica mi rende felice, perché è un modo per dare un contributo al nostro modo di vivere. La musica è un elemento importante della nostra vita e può renderla decisamente più ricca. Anche il parlarne può essere utile. Il significato dell’arte è prendere elementi dal quotidiano e trasferirli in qualcosa che non lo è, cioè in un aspetto creativo, fantastico. In questo mi riconosco in quanto artista. Se penso alla mia musica, la vedo come una musica che prende elementi etnici provenienti da altri paesi e mondi, ma anche attenta all’impatto che la tecnologia ha sul mondo di oggi e sulla composizione della musica stessa. Il tentativo è quello di guardarsi attorno e di scrivere della musica che racconti del mio mondo, di quello in cui vivo e che sappia essere elemento di comunicazione, come una sorta di lente attraverso la quale descrivere ciò che mi circonda. Per me la musica è un elemento della comunicazione.</span></span></span></i></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right; line-height: normal; "><span class="Apple-style-span" style=" ;font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;">Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></p></span>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-30327392630508555482008-08-25T00:00:00.000-07:002008-09-01T16:20:00.185-07:00Su James Ballard<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family:'Trebuchet MS';font-size:13px;"><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">«Vorrei aver avuto più mogli. Le mogli sono una cosa straordinaria e ci si dovrebbe sposare il più possibile. Se un matrimonio finisce, risposati al più presto. A diciotto anni la sapevo lunga sul sesso. E adesso a cinquanta anni che non so quasi niente. Ero uno studente in medicina e gli studenti in medicina tendono ad avere un atteggiamento più disinvolto. Quel che è più importante, gli studenti in medicina bazzicano con le infermiere; e le infermiere a quei tempi erano meravigliose, disinibite, una iniezione di vita. Non se sia ancor vero, ma lo scoprirò tra qualche anno quando finirà al reparto terminale». Era trascorso molto tempo dalla prima affermazione professionale, avvenuta a cavallo tra gi anni Cinquanta e Sessanta e rinnovata dalla popolarità de “La mostra delle atrocità” e “Crash”, ma James Ballard ancora non accettava il ruolo che gli era stato dato: scrittore di fantascienza.</span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Nel 1982 fu domandato a lui e ad alcuni suoi colleghi se il genere immaginativo per eccellenza fosse ancora in grado di individuare qualcosa di nuovo e possibilmente di prevedere il futuro. Tra gli altri risposero Anthony Burgess, che dichiarò di non scorgere più nessuna particolare visione</span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">in quel tipo di libri; Isaac Asimov, che ricordò come le </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">recenti</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> scoperte sul conto di Marte impedissero di contemplare un avvenire in cui fosse previsto un incontro con altre creature di quel pianeta o un’utilizzazione dei suoi canali; Primo Levi, che suggerì come la domanda andasse girata alla scienza e alla tecnica nelle quali egli, nonostante un latente pessimismo, continuava a credere; infine James Ballard, che lamentava la scomparsa dello stesso avvenire e indicava nel mal governo il peggioramento della vita collettiva, macchiata da una morale sempre più sporca. </span></span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Successivamente, riferendosi al suo paese, Ballard ebbe a dichiarare: «Il futuro del pianeta, almeno da noi in Occidente, sarà di una noia mortale. La nuova Inghilterra è tutta qui; una realtà che non è più né città né campagna, una società usa e getta dove le relazioni personali non contano più, perché si sceglie un amico, un amante, una moglie come si sceglie una vacanza tutto compreso di cinque giorni in qualche località esotica di cui non capirai nulla. Accettiamo il ruolo che ci viene dato, quasi come i personaggi secondari di Sentieri».</span></span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>Fu in quel periodo di tempo che morì, a soli cinquantaquattro anni, Philip Dick, uno dei più brillanti autori di narrativa di anticipazione; mentre appariva sugli schermi “Blade Runner”, che il regista inglese Ridley Scott aveva tratto dal romanzo dello scrittore “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, apparso nel 1968. Se Dick non è riuscito ad assistere alla messa in atto delle sue previsioni, tra cui la riduzione del mondo ad immagine, Ballard è stato testimone - attraverso le sue folgoranti intuizioni, il controllo mentale della materia trattata e l’approccio scientifico divulgativo adoperato come punto di partenza verso il surreale e il fantastico - di come spesso nella storia della civiltà i grandi balzi in avanti portino sull’orlo del disastro le società in cui avvengono. Se nel corso del tempo l’industria dello spettacolo si è avvicinata all’universo simbolico dei due scrittori, sono stati altrettanto numerosi gli interventi di studiosi ed esperti che hanno pian piano ridisegnato più seriamente il profilo del loro lavoro; proiettandone l’opera oltre i confini del genere per associarla alle tendenze letterarie più importanti e facendo di entrambi un singolare caso letterario, tanto corteggiato dallo show business quanto analizzato dal mondo intellettuale.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>E’ la lettura di “Visioni” - una bella raccolta di interviste, saggi e interventi critici su e di James Ballard - a suscitare queste impressioni. La Shake lo rimanda in libreria in una nuova edizione arricchita, dopo una prima pubblicazione avvenuta nel 1994; mentre l’editore Fanucci ristampa “Divine invasioni”, la biografia di Philip Dick scritta da Lawrence Sutin. Il volume ribadisce l’attualità del messaggio di Ballard, riaffermando il fascino di quel territorio di confine, scaturito dalla sua scrittura paragonata dalla critica al codice dimenticato di un linguaggio geometrico in disuso, dove coesistono le riflessioni sull’arte del romanzo e sul compito della fantascienza, formando così un grande quadro complessivo su una provvisoria barriera di rovine. Affascina nello scrittore inglese il tentativo, comune ad altri recenti movimenti o gruppi d’avanguardia, di ricondurre la frantumazione dei linguaggi almeno sotto il controllo di una loro definizione intellettuale che recuperi prestigio e tecnica proprio rinunciando alla loro ricomposizione. «</span></span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">La gente ha tutto quello che sognava da generazioni, una casa con tutti i comfort, l’automobile, la possibilità di viaggiare, e lo stesso non è felice. Anzi, sembra più infelice che mai. Quando la gente non sa più cosa vuole, possono nascere falsi dèi, piccoli messia, religiosi o politici, totalitarismi di nuovo genere, in apparenza meno violenti ma forse più efficaci nel controllare le coscienze».</span></span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoPlainText" style="text-align: justify; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span></span>«E’ forse il tempo - si domanda Ballard - una struttura mentale obsoleta tramandata dai nostri antichi antenati, che inventarono il tempo seriale per smantellare una simultaneità che non riuscivano a controllare nella sua interezza? Il tempo dovrebbe essere liberalizzato e ognuno dovrebbe avere il suo?». Al messaggio politico contenuto sotto traccia nel suo lavoro si contrappongono in Ballard la disperazione e la mancanza di prospettive. La marea avanzante dell’umanità e del corso degli eventi appaiono come un processo cieco, caotico, privo di ogni direzione o mèta. Il solo senso della vita individuale è nell’amore e nella poesia; essa appare come il fiore condensato del tempo. E sono i suoi fiori, man mano che vengono colti, ad allontanare e a ritardare per qualche tempo la morte imminente, che si abbatte simultaneamente sulle cose, sulle persone, sulle metropoli, infine sugli amanti spezzando la loro unità. Nelle intenzioni dello scrittore la dimensione individuale, alimentata dagli affetti e dal linguaggio, appare scissa da quella collettiva, che si configura come una potenza ostile e minacciosa. Sembra non esserci speranza nella continuità storica e sociale, nella memoria dell’umanità. L’immortalità della bellezza si realizza solo nel cielo dell’arte. Ed è sorprendente come nei suoi racconti, sempre sorretti da una grande perfezione stilistica e formale e che non possiedono nulla di fantascientifico nel senso convenuto della parola, rivivano le forme e i concetti del simbolismo romantico o decadente. «I più grandi sviluppi del prossimo futuro non avranno luogo sulla Luna o su Marte, ma qui da noi, ed è lo spazio interno dell’uomo che deve essere esplorato, non quello interplanetario. L’unico pianeta </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">alien</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> è la terra».</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><o:p></o:p></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right;color: rgb(51, 51, 51); "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> <span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0); font-weight: bold; ">Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></p></span>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-90775663799082038882008-08-18T00:00:00.000-07:002008-09-01T16:23:40.209-07:00Su David Byrne<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family:'Trebuchet MS';font-size:13px;"><p class="MsoNormal" style="text-align: right; margin-right: 38.3pt; "></p><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style=" ;font-size:13px;"><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">La pubblicazione di “Everything That Happens Will Happen Today” - che dopo ventisette anni lo vede di nuovo al fianco di Brian Eno, meraviglioso agitatore culturale delle consuetudini pop - ha confermato il magnetismo di David Byrne ed assegnato un’ulteriore sfumatura storica all’ambiente culturale che lo ha prodotto. Insieme a pochi altri egli ha affermato la figura del musicista indipendente, ricercatore a tutto raggio, rigoroso, sorvegliato. Non limitato ad una singola attività riduttiva, ma indissolubilmente legati a quel senso di promessa insito nella sua educazione artistica, esso ha spianato la strada ad una discendenza di artisti per i quali l'esercizio della musica non è una professione né una gloria, ma una forma di felicità. Attraverso l'impegno di questi artisti, New York ha da tempo ribadito il suo ruolo centrale all'interno di quella prospettiva che ha l'arte come destino. Mentre al Chelsea Hotel William Burroguhs e Allen Ginsberg raccoglievano i ricordi di una vita senza tregua, la città inventava la tecnologia del piacere della disco-music, che si sarebbe poi riprodotta lungo le derive della techno fino ad imprimere, con l'acid house, l'ectasy e la generazione chimica, una radicale trasformazione del divertimento. Aveva fatto da baricentro al teatro di Bob Wilson; al </span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">nonsense </span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">delle New York Dolls e dei Ramones; ai testi e alle fotografie di Gerad Malanga; agli esperimenti di Alan Vega e di Glenn Branca; alle commedie di Sam Shepard; alle canzoni meticcie di Mink De Ville; alla disperazione di Jaco Pastorius, il geniale e sfortunato bassista dei Weather Report, ridotto a vivere in un furgone vicino ad un campo di basket; ai libri dolorosi di Jim Carroll; agli articoli maledetti di Lester Bangs; all'esperienza metafisica di Philip Glass e di Steve Reich, i compositori che nelle sale da the e nelle biblioteche pubbliche reclamavano con le loro ipotesi minimali un silenzio del pensiero. New York aveva fatto da cassa di risononanza all'onda d'urto del punk, nato sulla costa occidentale dalle crepe di un suono nero ed aspro, ma esploso nella città che più di altre sembrava dettare lo scambio tra paesaggio e simulacro; come aveva compreso, scrutando lungo i versi di una poesia urbana e visionaria, Martin Scorsese nella violenta parabola di "Taxi Driver"; che allineava Dostoevskij e insonnia notturna e sembrava davvero fare da eco al monito dei Sex Pistols, il più celebere e il più discutibile dei gruppi punk: </span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">quando non c'è futuro, non ci può essere peccato</span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">. Il clima psicologico della metropoli produceva il jazz spigoloso e astratto di John Lurie; e la tensione del Patti Smith Group, che nel 1975 con l'ausilio di Robert Mapplethorpe pubblicò, combinando Rimbaud e Rolling Stones, il disco "Horses"; provocatorio manifesto di quel contromovimento dove le canzoni conservavano la componente di aggressività ma inciampavano nelle forme gentili della poesia. Secondo un nuovo canone di bellezza colto anche da Tom Verlaine, autore insieme ai suoi Television del lunatico e incantevole “Marquee Moon”, modello di riferimento di tanto rock contemporaneo. C'è chi parlò, come Greil Marcus in un libro molto importante intitolato "Tracce Di Rossetto", di affinità tra il punk e il dadaismo. Quello che accadde in quella lunga stagione condizionò la sensibilità di molti artisti degli anni Ottanta. Dalle vessazioni di Lydia Lunch ai labirinti di Laurie Anderson; dalla chimica di Arto Lindsay all’art-déco dei Sonic Youth e alle astrazioni di Bill Laswell, fino ad arrivare ai film di Amos Poe, di Susan Seidelman e di Jim Jarmush. «</span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">Lo spirito era più importante di quasiasi abilità tecnica</span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">», arrivò a commentare il regista di “Stranger Than Paradise” e “Down By Law”, sintetizzando l’azzardo e l’avventura di quel periodo. New York aveva espresso, dieci anni prima, la bellezza sbandata dei Velvet Underground. Lou Reed, che ne fu il principale protagonista, perseguiva la fede in un mondo al di fuori della sua stanza. Aveva ereditato un profondo senso di solitudine dal suo maestro Delmore Schwartz; lo scrittore morto povero in una stanza d'albergo di Manhattan, che a ventuno anni aveva scritto il racconto "Nei Sogni Cominciano Le Responsabilità", mettendo insieme quasi profeticamente un'eredità europea di memorie e un'eredità americana di desideri. Andy Warhol, l'eccentrico rivelatore dell'arte seriale e della multimedialità, disegnava la copertina a buccia di banana del primo disco del gruppo, e visualizzava la saldatura tra arte figurativa, letteratura e musica rock. Warhol fu di fatto l'artefice della liberazione della creatività americana rispetto alle mezze ombre dell'ideologia europea. Se un autore del vecchio continente vedeva con sospetto l'idea di ripetizione, uno del Nuovo Mondo la interpretava come una componente esaltante. Non era un handicap, ma un nuovo modello di riferimento. New York aveva articolato il proprio linguaggio musicale soprattutto su un piano politico: il Village, Dylan, i Fugs. A fare da spartiacque furono proprio i Velvet. Essi scelsero riguardo il suono di accentuare l’innata ripetitività del rock’n’roll, situandosi attraverso questa preferenza in una posizione non tanto distante da quella dei compositori d’avanguardia degli anni Sessanta;</span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">impegnati anch’essi a ridurre agli estremi la musica e a privilegiare la stasi e la ripetizione, creando così nuovi standard di esecuzione e di fruizione, ai quali non erano estranei il rito e la trance. Riguardo l’uso delle parole invece i Velvet applicarono registri cupi, ambientando la loro letteratura nei lugohi marginali della metropoli, in cui l’illegalità è la norma. Il rock divenne pericoloso. Ci aveva visto giusto il giornalista Herbert Asbury, che nel 1927 aveva pubblicato “Gangs of New York” dove rievocava i fasti e le imprese della malavita della città, svelando tuttavia come la sua frenetica evoluzione conservasse un retroterra di vizio, povertà e corruzione politica. Ma </span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">è lo sguardo dello straniero che fa la rivoluzione</span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">, come ammoniva Alain Robbe-Grillet, e il disco di Brian Eno del 1981 "My Life In The Bush Of Ghost" era la traduzione musicale di questa visione, e della multiforme energia di New York. L'album formulava un insieme di piani sonori accostati con ampia libertà sperimentale, sfociando in un audace accostamento di primitive radici culturali e possibilità della nuova tecnologia. Eno (già responsabile del progetto “No New York”, prima e sconcertante panoramica della corrente più estrema della new-wave newyorkes) lo incise con David Byrne. Byrne era in quel periodo, grazie alla sua leadership nei Talking Heads, una delle figure più in vista della disarticolata scena newyorkese. Eno aveva prodotto il disco dei Talking Heads "Remain In Light" del 1980, dove veniva sviluppata una nuova definizione di suono e di ritmo. Concepito su un principio di musica orizzontale, rinunciando alla linearità del linguaggio ordinario, l'album suonava davvero in maniera inconsueta, passando attraverso un lavoro di improvvisazione composto da materiali sonori preregistrati e da parti letterarie ritagliate da giornali e programmi radiofonici, alzando sensibilmente le aspirazioni della cultura rock, mai così vicina alla rappresentazione globale della civiltà del tempo. Questa è la cornice di significato dentro la quale Byrne ha mosso i suoi passi, scagliandosi di continuo contro l’arte che funziona a luce diurna e vive del principio del senso comune. Sono trascorsi molti anni dal suo esordio ma oggi più che mai egli appare, con tutta l’organizzazione di significati che la sua esperienza rappresenta, un anello di congiunzione tra l’onda lunga degli anni Sessanta e i molteplici indirizzi di una ricerca ancora molto vivace.</span></span></span><br /></span></div><span style=""><div style="text-align: right;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0); font-family: verdana; font-weight: bold; ">Vittorio Castelnuovo</span><br /></div></span><p></p></span>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-73274978912599898612008-07-15T00:00:00.000-07:002008-07-16T01:31:18.182-07:00"GLI AMERICANI" - Robert Frank<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family:'Trebuchet MS';font-size:13px;"><p class="MsoNormal" style="margin-right: 21.3pt; text-align: justify; text-indent: 35.45pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Intervistato recentemente riguardo la possibile distribuzione di “Cocksucker Blues”, il film di Robert Frank che documenta il tour dei Rolling Stones negli Usa del 1972, Mick Jagger ha dichiarato che </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">non gli dispiacerebbe</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">. Del resto è il momento giusto, considerando il rinnovato interesse verso la filmografia degli Stones. Un’icona pop prima poco considerata - all’appello manca “Ladies and Gentleman The Rolling Stones”, film concerto del 1974, ma è solo questione di tempo - ora invece vista come fulgida testimonianza di un’epoca, forse persino necessaria per alimentare le ricorrenti ondate del revival. Da “Shine A Light” di Martin Scorsese, che nel frattempo ha rinunciato al biopic su Bob Marley ed è stato rimpiazzato da Jonathan Demme; a “Rolling Like A Stone” degli svedesi Stefan Berg e Magnus Gertten, che ha aperto l’ultima edizione del festival internazionale Corto in Bra, raccontando la storia di un gruppo di fan e musicisti locali che nel 1965, durante un tour del gruppo in Svezia, dettero vita ad una festa privata durata tre giorni (!); fino</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">a “Charlie Is My Darling”, resoconto di un piccolo tour in Irlanda nel 1966, girato in bianco e nero con una cinepresa in 16mm Eclair e un registratore audio Nagra da Peter Whitehead, e programmato nell’ultima edizione del Bellaria Film Festival; contemporaneamente la pubblicazione per Derive Approdi di “Cinema, musica, rivoluzione”, dove le curatrici Laura Buffoni e Cristia Piccino ripercorrono la carriera del celebre documentarista.</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 21.3pt; text-align: justify; text-indent: 35.45pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Ma fu per volontà dello stesso Jagger che all’epoca “Cocksucker Blues” non raggiunse le sale; dopo la sconcertante proiezione privata avvenuta a Londra in un cinemimo di Soho, dalla quale erano state preventivamente escluse le mogli per via delle numerose scappatelle avvenute tra uno spettacolo e l’altro. Però le immagini non documentarono tanto le avventurette dei membri del gruppo, quanto la loro solitudine e più in generale una decadente mancanza di significato. Viste adesso che il rock ha perduto quello stato di felicità e di potere soprannaturale che esprimeva un tempo, esse provocano una riflessione su cosa abbia significato l’esperienza della musica giovanile negli anni Sessanta e Settanta; quando in molti erano disposti a tutto, convinti che la forza d’urto provocata da quel suono avrebbe davvero cambiato il mondo, lo statuto della realtà e il limite della morte.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 21.3pt; text-align: justify; text-indent: 35.45pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Ancora sufficientemente vicini ai fermenti della cultura non omologata -</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">vedi la decisione di affidare la regia del precedente film “Gimmie Shelter” ai fratelli Albert e David Maysles; fautori del </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Direct Cinema</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> e poco tempo fa protagonisti di una bella pubblicazione retrospettiva, “A Maysles Scrapbook”, corredata da una prefazione di Martin Scorsese - gli Stones erano entrati in contatto con Robert Frank a cavallo di quei due decenni ma è probabile ne conoscessero da prima la reputazione. Franck era sbarcato nel 1947 a New York, proveniente dalla Svizzera, e nel 1959 aveva realizzato “Pull My Daisy”, il primo dei suoi film sperimentali. Girato nell’appartamento di Alfred Leslie con Allen Ginsberg, Peter Orlovsky e Gregory Corso che improvvisavano dal vivo - mentre un deluso Jack Kerouac dovette più volte ricominciare da capo il suo intervento, finendo col rimproverare alla pellicola una certa mancanza di spontaneità - il film prendeva spunto da un verso dall’autore di “On The Road” pieno di sottointesi erotici: l’espressione </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">pull my daisy </span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">evoca infatti l’ultimo atto dello strip-tease prima della nudità completa. In particolare l’amicizia tra Franck e Kerouac fu rinsaldata da un altro progetto: un libro di fotografie, pubblicato lo stesso anno, dove si visualizzava il fallimento del Sogno Americano. Il volume si intitolava “The Americans” e finì, molti anni dopo, nelle mani degli Stones. Fu in margine a questo episodio che nacque la copertina di “Exile On Main Street”, uno dei dischi più belli del rock: </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">the definitive road album</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">,</span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">il vero album da strada, secondo la pittoresca definizione che ne diede Barbara Charone. Di fatto il libro di Robert Frank anticipava il racconto melodico degli Stones; svelando le violenze sorde, le voci soffocate e le solitudini tragiche di un paese svuotato di senso e in cui in fondo la strada rimaneva, nel tempo e nello spazio, l’unica realtà tangibile.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 21.3pt; text-align: justify; text-indent: 35.45pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">“The Americans” si allontanava dal sole dell’Eden americano e andava piuttosto all’interno della grande nazione, mostrandone il volto controverso e tracciando un impressionante carattere antropologico. Senza averne l’intenzione l’album era la trasposizione visiva di “And Keep Your Powder Dry. An Anthropologist Looks At America”, il saggio scritto nel 1944 da Margaret Maed (in Italia da poco ristampato per i tipi de</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Il Saggiatore) dove l’autrice si addentrava nelle viscere del popolo americano, riconducendolo con estrema lucidità alla propria origine: la smania di superare la condizione economica e sociale di partenza, la competizione inculcata in famiglia sin da bambini, lo sforzo e l’impegno come stili di vita, la ricompensa pensata in termini di ricchezza e successo, l’ottimismo esasperato, l’audacia, la fiducia in sé e nella propria missione civilizzatrice. Contro questo stato di cose, nel corso del tempo, gli artisti si sono battuti per creare un necessario spazio di pensiero; e per Robert Frank quel periodo ed i suoi protagonisti furono, come successivamente ebbe a dichiarare, «l’inizio di un’infinità di cose». Sia lui che Allen Ginsberg rammentarono per esempio l’impatto provocato nel 1952 dall’antologia discografica “American Folk Music”; messa a punto da Harry Smith, dove questi dava fondo al suo amore per il collezionismo - dalle uova di Pasqua agli aeroplanini di carta fino ai giochi di corda - applicandolo tuttavia a quel vasto passato americano, rimasto fino a quel momento inesplorato perché impossibile da ascoltare e immaginare. A cinquant’anni di distanza dalla prima edizione, stampata dal francese Robert Delpire in fotocalcografia e con una copertina disegnata da Saul Steinberg, “The Americans” ci fa riflettere sulla nascita di questa epopea moderna; di come cioè i protagonisti del movimento beat, nel drastico rifiuto del consumismo e nell’assunzione di un impegno pacifista ed ecologico, furono all’origine</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">di un’ondata generale di contestazione, gettando le basi della cultura contemporanea. Robert Frank è stato uno dei pochi fotografi che capì la Beat Generation e vi si integrò, e i suoi scatti ci ricordano pure come da troppo tempo abbiamo disimparato a pensare l’utopia.</span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right; margin-right: 21.3pt; text-indent: 35.45pt; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);">Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></span></p></span>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-83288972796705189122008-07-05T00:00:00.000-07:002008-07-14T06:04:59.535-07:00Su Enrico Pierannunzi<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family: 'Trebuchet MS'; font-size: 13px; "><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Attivo dagli anni Settanta ed approdato recentemente</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">all’etichetta Cam, con la quale ha inciso dischi di diseguale valore, il musicista Enrico Pieranunzi, che sta al jazz come il suo mentore Giorgio Manganelli stava alla letteratura, ha realizzato un disco (“Enrico Pieranunzi </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">plays</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> Domenico Scalatti”) che formalmente mette insieme il gusto dell’improvvisazione, tipico della matrice afro-americana dalla quale egli proviene, con quello della tradizione cameristica, cui appartiene invece il clavicembalista Domenico Scarlatti. Figlio d’arte di Alessandro Scarlatti - proprio come Enrico, ricordando il papà Alvaro, bravissimo chitarrista - Domenico nacque a Napoli nel 1685 e morì a Madrid nel 1757; compiendo un tragitto simile a quello di Luigi Boccherini, l’altro schietto rappresentante del Settecento strumentale italiano, che venne al mondo a Lucca nel 1743 e si spense sempre a Madrid nel 1805. Dietro una logica musicale incalzante ed una serenità quasi pastorale, dove venivano adunate tutte le grazie del secolo di appartenenza, nella sua musica Scarlatti anticipava ed educava il tempo con improvvise forme di malinconia, secondo una dolente ed incessante esplorazione che trova riscontro nella parabola contemporanea del pianista romano.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; "><span style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Sono stati numerosi gli esperimenti effettuati per accostare i due modi, giustapponendoli spesso con effetti suggestivi; pure rammentandone i risultati discontinui, è opportuno citare per esempio il lavoro del brasiliano Uri Caine, multiforme e contraddittoria figura di agitatore musicale perfetta per i palinsesti attuali. Ma nell’album di Pieranunzi, lungo il canale sotterraneo individuato quasi attraverso una fedeltà all’enigma del passato e grazie al quale le due esperienze sono messe sullo stesso piano arrivando a formare un unico racconto melodico, c’è qualcosa di differente. C’è una poetica che ripensa il paesaggio mentale, combinando musica e significato ed individuando un’espressione ancora innominata, un incanto ancora inedito per gli standards cui siamo abituati: l’illusione di aver trovato il segreto, la luce che rispetta la nostalgia dell’ombra, </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">cose che sentono</span></span></span></i></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> e che fanno compiere al sentire una svolta.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify; "><span style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Con l’ausilio del solo pianoforte; chiamando a sé sia le mezze ombre della cultura indio-europea, con le quali egli continua fare i conti, che il desiderio e gli inganni dell’immaginario occidentale; non dando mai per acquisito il linguaggio jazzistico; con infinita tenacia Enrico Pieran</span></span></span></span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">unzi, uno dei pochi musicisti italiani realmente importanti, ribadisce come la via diretta gli sia preclusa. Affermando, pure nel bisogno di essere ascoltato, la propria diversità pure rispetto all’arte, e celebrando l’avvento della differenza.</span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right;color: rgb(51, 51, 51); "><span style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;">Vittorio Castelnuovo</span></span></span> </span></span></span></p></span>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-11335740984703200412008-05-24T03:44:00.000-07:002008-05-24T04:53:46.050-07:00Les années Stones<p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Con comprensibile soddisfazione Ziggy Marley ha annunciato che Martin Scorsese dedicherà un documentario alla memoria del padre Bob, leggenda della musica reggae. Al momento non c’è ancora un titolo ma l’uscita è prevista per il 65° anniversario della sua nascita, il 6 febbraio 2010. Ziggy, che è tra i produttori esecutivi della pellicola finanziata dalla Tuff Gong Pictures e dalla Shangri-La Entertainment, ha dichiarato: «Sono entusiasta di questo progetto su di lui. Finalmente la mia famiglia avrà l’opportunità di documentare la sua eredità. Sono onorato che sia nelle mani di Scorsese». Nel frattempo il regista prepara un film su George Harrison. «Ma non centra con i Beatles - ha commentato - è solo su di lui. Mi attrae il suo percorso esistenziale, la sua ricerca di spiritualità, la lotta contro i lati oscuri del suo temperamento. Ne parlerò soprattutto per descrivere la sua ricerca spirituale, il fatto che per lui la musica rappresentasse un mezzo per indagare quel lato della personalità. Il film documenterà la battaglia interiore, la tensione verso qualcosa di più alto. Spero di riuscire a cogliere il senso di tutto questo». E’ probabile Scorsese sia rimasto suggestionato dalla dolente versione di “While My Guitar Gently Weeps”; la canzone ispirata dal Libro dei Mutamenti cinese, conosciuto come I Ching, e contenuta nella “Anthology 3” dei Beatles, con dentro quei versi in seguito eliminati dove Harrison canta di </span><span style="font-size:85%;"><i>non fare altro che invecchiare</i></span><span style="font-size:85%;">, finendo con l’assistere a </span><span style="font-size:85%;"><i>un dramma</i></span><span style="font-size:85%;">. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Intanto nell’ultima edizione del Festival Internazionale di Marrakech, nell’enorme piazza di Jemaa El Fna trasformata in un palcoscenico, il regista ha presentato “Transes”; una pellicola girata nel 1981 da Ahmed El Maanouni, appena restaurata grazie all’impegno della World Cinema Foundation e dedicata alla storia di cinque musicisti arabi che negli anni Settanta decisero di rompere con la tradizione musicale della loro terra. Scorsese ha riflettuto come la vicenda, in fondo, non sia tanto lontana da quella del film sui Rolling Stones. Poi si è lasciato andare ai ricordi personali e a quello che fu il suo primo incontro col Marocco: «Era il 1983. Ero venuto per i sopralluoghi di “The Last Temptation Of Christ”. Ma il film fu cancellato e dovetti aspettare quattro anni per farlo. Fu girato nei dintorni di Marrakech, con molta gente del luogo; ed era influenzato da Rossellini, Olmi e Pasolini». Sembrava l’inizio di qualcosa, come svelò l’affresco sonoro di Peter Gabriel, il quale cercò di costruire un ponte tra le cose nella bella colonna sonora del film; che dietro la storia della tragedia del fallimento umano dell’essenza divina, ricorreva ad un affascinate opera di fusione etno rock, impossibile da piazzare nei vecchi palinsesti musicali. Scorsese poi ha raggiunto il Mali. «Voglio conoscere meglio il cinema e la musica africana», ha affermato. Mentre girava pochi anni fa il documentario “Feel like going home” - inserito nell’ambizioso progetto “The Blues”, condiviso con altri registi come Clint Eastwood, Mike Figgis e Wim Wenders - il regista ha vissuto l’incanto di scoprire un linguaggio sonoro che a miglia di distanza crea un misterioso gioco di immedesimazione; stabilendo così un legame profondo tra persone e fatti lontani e consentendo di assimilare piano piano il respiro frammentario ma avvolgente di uno stato d’animo quasi visionario, che porta ad un progressivo distacco dalla realtà in un meravioglioso esercizio di stile, in cui le storie si comprimono in una sola voce. Nel film egli racconta il passaggio dall’universo sonoro del continente africano alla musica popolare urbana americana, restituendone il fascino attraverso l’originale percorso a ritroso compiuto dal musicista Corey Harris.</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Ma fu il povero Brian Jones il primo, almeno di quella generazione</span><span style="font-size:85%;"><i> </i></span><span style="font-size:85%;">che fece di tutto per individuare il passaggio da una posizione di fede a una posizione di scetticismo, a provare l’itinerario verso l'utopia, alla fine degli anni Sessanta e al di là dei confini dell'Occidente industriale. Prima di lui solo Art Blakey, il batterista fondatore dei Jazz Messengers, il quale coltivò a lungo l’idea di capeggiare complessi di sole percussioni, per riaffermare la volontà di recuperare il legame culturale con l’Africa. Proiettato in una zona ideale e senza tempo, che comunemente viene chiamiata preistoria, Jones affrontò il fascino e la paura, le due compagne di viaggio di ogni percorso verso le origini. Forse influenzato dai racconti di Allen Ginsberg e William Burroughs, oppure dal fatto che ci vivesse Paul Bowles, o forse perché gli era giunta all’orecchio la battuta di Jean Genet nel </span><span style="font-size:85%;"><i>Diario del ladro</i></span><span style="font-size:85%;"> che la vedeva come il simbolo del tradimento, decise di recarsi a Tangeri. E poi, con il compagno di viaggio Brion Gysin - pittore visionario e nume tutelare dei beatnicks, che sarebbe morto anch’esso prematuramente nel 1986 a Parigi; dopo essere stato nei primi anni Sessanta uno dei più inquieti inquilini del Beat Hotel, sulla Riva Sinistra della città, inventando i primi spettacoli di luci e di proiezioni corporee multimediali e precedendo le luci psichedeliche dei concerti pop - Jones decise di spingersi ancora più in là, nei pressi di una località chiamata Joujouka. Dove i musicisti locali avevano catturato la sua immaginazione con le loro melodie ancestrali e i loro ritmi ipnotici. Jones non fece in tempo a vedere finalmente apprezzato il suo talento; ma il suo album “Joujouka”, pubblicato postumo nel 1971, anticipò di almeno un decennio l’interesse etnico da parte degli uomini del rock. L’ex leader degli Stones ribaltò l’dea del deserto come scenario della morte dell’Occidente, dove tutte le energie intellettuali vanno ad esaurirsi; e perseguì invece gli insegnamenti della tradizione ebraica, che considera il deserto come luogo del viaggio verso il futuro. Non la zona della fine ma l’inizio di una nuova partenza. Brian Jones aveva vissuto metà della sua vita ed aveva gettato via il resto. Aveva ottenuto molto, ma aveva perduto tutto. Nel deserto africano si sentì un uomo solo ma felice: un cercatore d’infinito. E per l’ultima volta avvertì un grande bisogno di bellezza, nel crepuscolo della propria autodistruzione. Aveva assunto droghe fino a fargli dimenticare di essere, e cominciò ad accorgersi come nella vita di un uomo l’ultimo ad andarsene era sempre il dolore. Jones sapeva che la droga non era un risarcimento dell’amore; ma qualcosa che dava ciò che l’amore, almeno per lui, non era più in grado di dare. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Quattro anni dopo, nel 1973, arrivò la prima significativa affermazione di Martin Scorsese con “Mean Streets”, il cui sottotitolo in italiano recitava </span><span style="font-size:85%;"><i>Domenica in chiesa Lunedì all’inferno</i></span><span style="font-size:85%;">. Scorsese aveva scritto il soggetto nel 1966, ispirato a “I Vitelloni” di Federico Fellini, e in seguito la sceneggiatura. Il film rivelò il talento di Robert De Niro, che Scorsese aveva conosciuto tempo prima tramite Brian De Palma, e rappresentò il primo accurato approccio con le tematiche religiose ed esistenziali determinanti per la definizione della sua estetica. L’utilizzo inedito delle canzoni pop e quello altrettanto incisivo che il regista fece dei classici popolari italiani, da Giuseppe Di Stefano a Renato Carosone, manifestando così l’importanza che le tradizioni lirica e leggera avevano per la comunità italoamericana, assegnarono un tratto quasi operistico al film. Ma la ragione del successo di “Mean Streets” risiedeva nelle circostanze della sua produzione e nel retroterra culturale del regista: il denominatore comune era la musica rock. Scorsese aveva trovato i finanziamenti per realizzare il film contattando Jonathan T. Taplin, che era stato il manager di Bob Dylan e della Band. E aveva impostato il lavoro giocando sulla simultaneità dello sviluppo della storia e della colonna sonora. La partecipazione in parecchi film musicali - tra cui l’aiutoregia e la supervisione al montaggio di “Woodstock”, con il suo vecchio compagno di università Michael Wadleigh, e la pellicola “Elvis On Tour”, realizzata l’anno prima con Pierre Adidge e Robert Abel - testimoniava della sua esperienza professionale nel mondo della musica. Ma era stata soprattutto la capacità che Scorsese dimostrava nel rievocare il clima della musica rock del periodo - con una scelta che includeva le Ronettes, Johnny Ace e Eric Clapton - e il suo potere di influenzare la vita e il modo di comportarsi della gente, che aveva fatto di “Mean Streets” una sfida molto eccitante sia per il suo autore, sia per la Warner Brothers. Nel film la musica ricopre la stessa importanza degli altri elementi della messa in scena come l’illuminazione, i movimenti della camera e la disposizione degli attori. Scorsese arrivò addirittura a far durare il tempo di una sequenza, quella della rissa nella sala da biliardo, esattamente quanto “Please, Mr. Postman” delle Marvelettes. Filmò l’azione mediante un rapido susseguirsi di primi piani, vertiginosi cambiamenti dell’angolo di ripresa e movimenti a mano della macchina da presa che seguiva gli attori in tutto l’ambiente, ricalcando il ritmo della canzone. Un’altra scena riuscita fu quella in cui il personaggio di Johnny Boy, interpretato da De Niro, entra in un locale notturno sotto lo sguardo severo del protagonista Charlie, a cui prestava il volto Harvey Keitel. L’intensità dell’espressione assunta da quest’ultimo contrapposta alla disinvoltura di De Niro, la presenza femminile, il brusio del club, le luci, l’uso del ralenti e la luciferina canzone “Jumpin’ Jack Flash” dei Rolling Stones, fecero della sequenza una delle più significative della cinematografia americana degli anni Settanta. </span> </p> <p style="margin-right: 1.35cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Un anno prima questi avvenimenti Scorsese, come del resto molti altri americani, era rimasto impressionato dalla vicenda di Arthur Bremer, il mancato assassino del governatore George Wallace. Bremer volevo colpire l’uomo politico in uno shopping center del Maryland, pochi giorni prima l’inizio del tour del ’72 dei Rolling Stones, quello promozionale di “Exile On Main Street”. Così la vicenda finì col traumatizzare pure Mick Jagger, ancora scosso per la violenza che aveva segnato la precedente apparizione del gruppo in America, nell’inverno del 1969, culminata nell’uccisione di uno spettatore durante un concerto ad Altmont, in California, ed enfatizzata nelle foto di Bill Owens e soprattutto dalle immagini di “Gimme Shelter”; il film realizzato dai fratelli Albert e David Maysles e da Charlotte Zwerin che - nonostante le dure critiche di Pauline Kael sul New Yorker, che accusò i filmakers di creare i presupposti per azioni violente, arrivando a paragonare la registrazione di Altmont a quella di “Triumph des Willem”, la pellicola nazista del 1934 di Leni Riefenstttahl - esprimeva invece come la musica potesse esercitare un influsso determinante su certe linee d’azione, accennando alla possibilità del distacco dall’esperienza e dalle responsabilità comuni. «Mi chiesero di suonare ad un free show e lo feci - rilevò lucidamente Jorma Kaukonen dei Jefferson Airplane - ma dopo il nostro fiasco tornai a casa in autostop. Altmont si pose come un marchio nero sulla visione utopistica del rock e del tempo». Un episodio tornato di attualità dopo che la Bbc ha rivelato di essere venuta a conoscenza, mentre andava raccogliendo materiale per un documentario sui cent’anni dell’Fbi, di un complotto ordito dagli Hells Angels, la combutta di motociclisti e fuorilegge fondata nel 1948 in California, per eliminare Mick Jagger. La tesi è stata suffragata da Mark Young, un ex agente dell’agenzia che ha dichiarato come gli Angels - in quel periodo nel mirino del capo dell’agenzia Edgar Hoover, nell’ambito delle indagini su possibili gruppi sovversivi - avessero deciso di assassinare il cantante nella sua villa degli Hamptons a Long Island, vicino New York, e che intendevano farlo entrando nella residenza dal mare, solo che una burrasca mandò all’aria sia la loro imbarcazione che l’intero piano criminale. Gli Hells Angels volevano ammazzare Jagger per vendicarsi, dopo che questi aveva stabilito di non servirsi più di loro come security per i concerti. Una decisione presa all’indomani dell’incrimanazione di Alan Passaro; uno degli addetti alla sicurezza, raccomandati agli Stones da Jerry Garcia dei Grateful Dead, accusato di aver pugnalato alla schiena un ragazzo di colore, Meredith Hunter, durante un violento alterco scoppiato a pochi metri dal palco mentre gli Stones, solo in parte consapevoli di quanto stava accadendo, interrompevano “Under My Thumb”, la canzone incentrata sul tema della lotta tra i sessi e quindi della lotta di classe. Passaro fu assolto per legittima difesa ma agli occhi di Jagger egli restava, come tutti gli altri accoliti, colpevole e non volle più saperne niente della loro sedicente organizzazione. Fu allora che gli Hells Angels decisero di fargliela pagare. Un’eco macabra che si estese fino al 1980, quando all’indomani dell’uccisione di John Lennon il Village Voice uscì infelicemente con un titolo che fece scandalo: </span><span style="font-size:85%;"><i>Perché non hanno ucciso Mick Jagger?</i></span><span style="font-size:85%;"> </span> </p> <p style="margin-right: 1.35cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Nei giorni dell’american purgatorio Arthur Bremer scrisse in carcere un diario di pregevole fattura, il cui contenuto colpì sia Scorsese che lo sceneggiatore Paul Schrader, che era nato nello stato del Michigan nel 1946 e nei desideri della sua famiglia sarebbe dovuto diventare un Ministro della Chiesa. Pur essendosi avvicinato tardi alla professione Schrader si era guadagnato una solida reputazione di scrittore e saggista ed aveva pubblicato, proprio nel 1972, un testo ritenuto fondamentale nel panorama della critica specializzata e intitolato “Trascendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer”, dove teorizzava una suggestiva combinazione tra l’insegnamento delle filosofie e delle religioni orientali con il potere del cinema di dare attraverso le ombre e le luci un senso di realtà, capace di superare i limiti dello spettacolo e diventare gran teatro del mondo. Fu sulla figura di Arthur Bremer che Schrader modellò il personaggio di Travis, poi recitato da Bob De Niro in “Taxi Driver”, il capolavoro di Martin Scorsese.</span></p> <p style="margin-right: 1.32cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> «Sono andato a vedere i Rolling Stones - ha affermato il regista italoamericano - e davanti a quell’immenso spettacolo ho deciso che dovevo fare assolutamente un film su di loro. “Shine A Light” mi ha così coinvolto che mi sono occupato poco dell’edizione finale di “The Departed”. Mi sono anche reso conto che non poteva essere la semplice ripresa dello show, già trasmesso centinaia di volte. Volevo qualcosa di più intimo, di più ravvicinato. Il gruppo ha acconsentito a esibirsi apposta per me, una gioia enorme. Ne è venuto fuori un film in cui la storia è la loro performance, le loro facce, il loro modo di guardarsi mentre suonano e cantano, la sensazione precisa che non desiderino altro dalla vita che fare quello che fanno. C’è un breve documentario che ripercorre la prima carriera; il resto è tutto sulla musica, sulla fisicità di Mick Jagger, sulle loro facce. Mai un’inquadratura sul pubblico, un po’ sullo stile di “The Last Waltz” che feci nel 1976». </span> </p> <p style="margin-right: 1.32cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Il 25 Novembre del 1976, durante il Thanksgiving Day, era stato organizzato alla Winterland Arena di San Francisco il concerto d’addio di The Band. Il gruppo guidato da Robbie Robertson - successivo assistente di Scorsese - apprezzato dagli appassionati sia per la proficua collaborazione con Bob Dylan, che per la qualità della propria discografia, caratterizzata da un preciso senso della direzione artistica. Il regista impiegò due settimane per girare “L’ultimo valzer”, ma l’idea era stata messa in moto molto tempo prima. Fu significativo che il </span><span style="font-size:85%;"><i>lungo addio</i></span><span style="font-size:85%;"> della Band avvenne</span><span style="font-size:85%;"><i> </i></span><span style="font-size:85%;">nel Giorno del Ringraziamento; la musica e le parole del complesso affondavano infatti le loro radici nella ricca tradizione rurale del Paese, fornendo una nuova intonazione ai motivi del folclore musicale. Essere contattato da uno dei più importanti gruppi rock fu per Scorsese un’enorme soddisfazione, ed egli manifestò chiaramente questo stato d’animo: «La musica è la mia vita. Quando mi hanno proposto di filmare il concerto del Winterland, non ho esitato un secondo. L’occasione era semplicemente irresistibile. Sono sempre stato uno dei loro fan; non mi sono mai stancato di ascoltare i loro dischi. E non credo che questo concerto sia una fine. La fine di un’epoca forse, ma non quella del rock. </span><span style="font-size:85%;"><i>The Last Waltz</i></span><span style="font-size:85%;"> non è un’elegia. Non c’è tristezza». Più tardi, in occasione della presentazione fuori concorso del film al Festival di Cannes del 1978, Scorsese ebbe modo di ribadire il significato del suo lavoro: «Questo film è l’occasione per me di esprimere i miei sentimenti verso la musica che, all’infuori delle donne e del cinema, è ciò che conta di più per me. Non ho voluto realizzare un classico film musicale. Ciò che mi interessava era descrivere l’intensità che regna tra i musicisti, e non le reazioni del pubblico. E’ il solo dei miei film che posso vedere e rivedere senza stancarmi».</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Scorsese decise di girare “The Last Waltz” come documentario e non come film di genere, rinunciando a riprendere il pubblico e preferendo invece esplorare la personalità dei musicisti e il loro racconto melodico. Robbie Robertson rievocò come ebbe inizio l’attività con il cantante Ronnie Hawkins, come girassero pochi soldi e come ogni tanto fossero costretti a qualche furtarello nei supermarket; Levon Helm ricordò invece la sera in cui erano andati a casa del bluesman Sonny Boy Williamson, comunicandogli tutta la loro ammirazione dato che lo consideravano il loro padre spirituale; Richard Manuel si interrogava sul suo futuro, chiedendosi se sarebbe stato legato ancora alla musica. Scorsese desiderava visualizzare la qualità del linguaggio della musica rock, snodando al tempo stesso un senso di libertà e di partecipazione. Il regista fu come al solito molto bravo a trasformare un impianto tradizionale, come ormai erano diventati i film-concerto alla metà degli anni Settanta, in una personale elaborazione del sogno americano. Mostrò l’approccio della Band, estremamente essenziale e concepito come un tutto unico, ed evidenziò i momenti più emozionanti del film. Come il numero di Muddy Waters che cantava “Mannish Boy”; o l’esecuzione da parte della Band del loro classico “The Night They Drove Old Dixie Down”, dove sembrò a tratti che l’essenza stessa della musica rock invadesse la scena, liberando una sensazione di irresistibile coinvolgimento. Al tempo stesso le canzoni di “The Last Waltz” definivano il ritratto del crepuscolo di un periodo culturale, il simulacro di un movimento eccitante ma ormai in fase di stanca. Non c’era niente che potesse cambiare il corso naturale degli eventi. Ad un certo punto del film Robbie Robertson lo dice: «La strada è stata la nostra scuola. Ci ha insegnato a sopravvivere. Ma non avremmo proprio più potuto ottenere nulla da essa. A questo punto avremmo forzato la fortuna a voler continuare. La strada si è rimangiata molta gente in gamba che di lì aveva cominciato: Hank Williams, Buddy Holly, Otis Redding, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Elvis Presley. Sul serio: ci puoi giurare». </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Recentemente Peter Bogdanovich, il regista di “Paper Moon” e di “The Last Picture Show”, ha realizzato “Runnin’ Down A Dream”. Un lungo film, lodato dalla critica ed apprezzato dagli intenditori come una delle migliori produzioni di documentaristica rock, nel quale racconta la carriera di Tom Petty e del suo gruppo, gli Heartbreakers. Nell’occasione ha dichiarato di considerare il rock’n’roll, ancora adesso, un modo per conoscere una parte dell’America. Gli ha fatto eco Neil Young che con lo pseudonimo di Bernard Shakey ha presentato, sempre al Festival di Berlino e pochi giorni dopo gli Stones, il documentario “CSNY: Dejà vu”. Dove - con il pretesto di ricordare la storia della band formata con David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash - si è opposto alle guerre di Bush, con la stessa veemenza attraverso la quale trent’anni fa contestava la guerra in Vietnam. Young ha filmato le tappe della tournée di “Freedom Of Speach” del 2006; con i brani del disco “Living With War” inframezzati alle discussioni in pubblico sugli eventi del periodo, dal conflitto in Iraq alle decisioni del Congresso, registrando pareri anche favorevoli al Presidente, in realtà sempre meno numerosi nel corso del tempo. Significativa l’ovazione che accoglie il gruppo quando intona “Let’s Impeach The President”. «L’epoca della musica che può cambiare il mondo è finita», ha esordito Young a Berlino, lucidamente segnato dalla malinconia. «Non dobbiamo farci illusioni, l’America è cambiata, il mondo è cambiato». Con ironia ha rifiutato di parlare delle cose che non gli piacciono del presidente americano: «Per elencarle tutte avrei bisogno di una settimana. Faccio prima a dire l’unica cosa che mi piace, e cioè la forma fisica che riesce a mantenere». Quanto all’esito della prossima campagna elettorale Usa Young ha aggiunto: «Cerco di essere ottimista. Non tutti gli americani hanno dimenticato che la nostra è comunque una società democratica e vogliono ritrovare i valori della democrazia». </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Intanto il Sunday Times ha annunciato che James Jagger, 21 anni, interpreterà suo padre in un film sugli inizi della band che verrà girato quest’anno. “Rolling Stoned”, basato sulle memorie del manager del gruppo Andrew Loog Oldham, verrà diretto da Julian Temple. Il giovane Jagger, che nel film sarà il 19enne Mick, ha raccolto ottime recensioni al suo recente esordio teatrale. «Se tenti di raccontare il giovane Jagger - ha sostenuto il produttore Peter Martin della Surreal Films - chi potrebbe farlo meglio di qualcuno che è geneticamente Jagger? Se vuoi un giovane Mick e un giovane Keith Richards, devi prima cercare nelle loro famiglie». Quarant’anni dopo la pietra rotola ancora. I registi Stefan Berg e Magnus Gertten hanno girato “Rolling Like A Stone” - che ha aperto, con una grande partecipazione di pubblico, l’ultima edizione del festival internazionale Corto in Bra, dedicato al cortometraggio - intervistando un gruppo di fan e musicisti locali che nel 1965, durante un tour degli Stones in Svezia, dettero vita ad una festa privata durate tre giorni (!) e ancora al centro dei loro ricordi. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Realizzando tre anni fa “No Direction Home”, il documentario musicale su Bob Dylan, è come se Scorsese avesse portato a termine una sfida. «E stato fatto utilizzando materiale giurato negli ultimi quarant’anni. Jeff Rosen ha intervistato Dylan, lo conosce da trent’anni ed è riuscito ad arrivare a una verità. Una verità e non la verità perché Dylan, come molti di noi, continua a reinventare se stesso. Dice: </span><span style="font-size:85%;"><i>Non importa quello che ho detto riguardo me stesso, non importa quello che dico ora, importa quello che faccio</i></span><span style="font-size:85%;">. Alla fine non è la tecnica, non è lo stile. Sono le persone e ciò che si rivela nel momento in cui una persona abbandona la sua autoconsapevolezza e ti lascia avvicinare. Questo è il cinema». Scorsese ha recentemente ripreso questo concetto: «Il cinema come amore, missione, senso della vita, esplorazione del mondo e di se stessi. E’ una risposta all’antico bisogno dell’umanità di condividere la memoria comune, un’eredità che riguarda tutti». La relazione tra questi due linguaggi, il cinema d’autore e la musica rock più ispirata e indipendente, resta tra la cose migliori della cultura che abbiamo appreso tra gli anni Sessanta e Settanta e che ha portato ad un’affascinante e complessa configurazione di elementi, mentre aspettiamo che qualcuno ci dica chi siamo adesso. Nel frattempo Scorsee ha rinunciato alla regia del film su Marley. Al suo posto - altro caso felice in cui il taglio visivo delle azioni riesce ad aggiungere collegamenti, anziché toglierli - ci sarà Jonathan Demme.<b> </b></span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;font-family:verdana;" align="justify"> </p> <p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><b> </b></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; text-align: right; font-weight: bold; color: rgb(255, 0, 0);"><span style="font-size:85%;">Vittorio Castelnuovo</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm;" align="justify"><span style="font-family:Arial,sans-serif;"><b> </b></span></p>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-13924203948529086462008-05-24T03:43:00.000-07:002008-05-24T04:52:48.027-07:00L'Amico Americano<p style="margin-right: 1.35cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Si pensa che "Mistery Train", scritto da Greil Marcus nel 1975 e tradotto in Italia da Editori Riuniti nel 2001(!), sia il più bel libro sulla musica pop; per via della lucida identificazione tra il linguaggio del rock, inteso come <i>nuovo</i> soggetto rivoluzionario, e la società americana degli anni Sessanta e Settanta. Marcus è una delle firme più autorevoli della stampa musicale Usa e fa parte della stessa generazione di Robert Christagu, Dave Marsh, Nick Tosches, Richard Meltzer, Peter Guralnick e Lester Bangs. Durante gli anni il lavoro di questi giornalisti, contemporaneamente la parabola di riviste come “Rolling Stone” e “Creem”, ha documentato la nascita e lo sviluppo dell’identità culturale attorno l’utopia della musica giovanile. Intanto in Italia sono stati pubblicati altri testi di Marcus: "Tracce di Rossetto", stampato a suo tempo da Leonardo, dove è sviluppata un’originale relazione tra la rivolta del punk e le avanguardie artistiche del Novecento; "La Repubblica Invisibile", edito da Arcana, che ha come tema l’isolamento deciso da Bob Dylan al termine degli anni Sessanta; e infine “Like A Rolling Stone”, uscito per Donzelli, dedicato alla celebre canzone del cantautore. </span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Contrariamente le consuetudini del giornalismo di settore, spesso improntate su forme di fanatica ammirazione, l'approccio di Marcus delinea uno stile più maturo ed assegna alla musica rock una prospettiva unitaria: essa non è percepita come un’espressione di controcultura, ma come una componente della cultura Usa. E' questa l’analisi più interessante recata dal critico e viene messa a punto in maniera sublime e non priva di sapienza poetica nelle pagine di "Mistery Train", attraverso dei saggi che hanno per protagonisti alcuni importanti interpreti della musica popolare. Nelle intenzioni di Marcus essi sono stati scelti non solo per meriti artistici; ma anche per le ripercussioni che hanno provocato con il loro lavoro, avendo creato quella dimensione culturale in cui si rispecchia e si rinnova, secondo la tesi del libro, l'identità di un'intera nazione. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"> Leggiamo così dello straordinario impatto di Elvis Presley; delle rivendicazioni razziali di Sly Stone, che chiudono il cerchio rispetto la solitudine patita all'inizio del secolo da Robert Johnson e stemperata negli acquarelli evangelici delle sue dolorose ballate; dell’avventura di The Band nel cuore di tenebra della tradizione rurale; infine della zona di libertà di Randy Newman. Da Melville a Jerry Lee Lewis, Marcus ci ricorda che gli americani hanno sempre cercato, e nel cercare hanno saputo creare. Le parole di "Mistery Train" provocano una risonanza seducente e risuonano in una dimensione di struggente immaginazione, ma sono rivolte al passato. Esse toccano l'America del mito, il paesaggio, la tradizione orale, trasmettendo tuttavia un senso di perdita. Solo al termine della lettura si prende coscienza che il libro è superato. Non perché nel frattempo si sia verificato un cambiamento all’interno della cultura di questa musica, bensì perché ne è accaduto il termine. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"></p><p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p><p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Viene spesso in Italia?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Vengo in Italia dal 1961. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Il suo primo incontro con la musica?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Sono nato a San Francisco nel 1945 e sono cresciuto nei sobborghi della città. Non avevo mai avuto un interesse particolare per la musica fino all’arrivo del rock & roll, nel 1955, e da quello che veniva trasmesso alla radio. Anch’io, così come gli altri, ero scioccato e confuso; e poi improvvisamente entusiasmato da Little Richard, Elvis Presley, Chuck Berry, e dalle voci nuove e sorprendenti che apparivano e sparivano da una settimana all’altra. Passavamo tantissimo tempo a parlare dei dischi, a discutere su quale fosse il preferito, e mandare in giro chiacchiere: Brenda Lee si spacciava davvero per una bianca? Durante i balli delle superiori gli studenti si alzavano e cantavano "Earth Angel" e altri hit. Era un mondo pieno di divertimento, sorpresa e eccitazioni. Ma tutto questo si era incominciato ad attenuare già dal 1958; e durante le superiori, spesso, ero talmente disgustato da quanto era diventata monotona, imitativa, soft e stupida la Top 40 Radio che passavo dei mesi senza ascoltarla. I primi anni Sessanta sono passati alla ricerca di una stazione radio che trasmettesse qualcosa di decente; e prima del 1963 e l’arrivo della Motown questa ricerca è stata parecchio difficile. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Cominciò subito a comprare dischi?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Quando avevo dieci anni compravo i singoli. Il primo disco che ho acquistato è stato "All Shook Up" di Elvis, perché volevo contribuire a tenerlo al primo posto delle classifiche locali; e sembrava che "School Day" di Chuck Berry stesse per prendere il primo posto la settimana seguente, e infatti fu così. Comperare un disco era come votare in un’elezione. Ma tra le persone che io conoscevo, il fatto di acquistare dischi era una cosa da ragazze! I ragazzi ascoltavano la radio o andavano al negozio di dischi e ascoltavano i dischi nelle cabine d’ascolto, dove si poteva ascoltare qualsiasi cosa prima di decidere se acquistarla o no. Ma non compravamo mai nulla! In seguito, ho scoperto che Steve Buckingham, un grande nuotatore della mia scuola, la Menlo-Atherton, aveva una collezione enorme di singoli rock & roll che regalò poi al fratello più piccolo Lindsey, che frequentò anche lui la stessa scuola anni dopo che io avevo finito. Lindsey successivamente divenne una star con i Fleetwood Mac. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: C'era qualcuno che apprezzava più degli altri?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: A nessuno piaceva tutto. Io volevo essere sorpreso, volevo scoprire qualcosa di nuovo. Letteralmente: volevo che mi si aprisse un'altra porta. Mi piaceva soprattutto Elvis; ma mi piaceva altrettanto Jimmy Soul con la sua "If You Want To Be Happy", però in maniera diversa. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Ascoltava anche il blues e il jazz? </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Non ascoltavo mai il jazz e continuo a non farlo; mi piace "Jack Johnson" di Miles Davis. Ho scoperto il blues seriamente dopo il concerto di Altamont del 1969; quando la violenza e l’egoismo di quel giorno sembravano rappresentare tutto ciò che era diventato il rock & roll e io non sopportavo più ascoltarlo. Un giorno ho trovato l’album di Robert Johnson "King of the Delta Blues" e l’ho acquistato perché una delle canzoni si trovava anche su un album di Cream. Quell’album non mi aprì solo una porta ma bensì un intero paese, e dopo di quello divenni un ascoltatore ossessionato di blues. Per me è il massimo in profondità e forza. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Si rendeva conto fosse l'inizio di qualcosa o era presto? </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Considerai il mio primo incontro con il rock & roll come segno di cambiamenti non nella musica, ma bensì nella società. Qualcosa di nuovo era apparso nel mondo e per chissà quale miracolo era per le persone come me, e non per le persone più grandi che sembravano sapere già tutto. Quando i Beatles arrivarono negli USA capì che si trattava dello sviluppo della storia di una generazione. Che era presente un nuovo spirito e che questo avrebbe portato cambiamenti nei modi in cui le persone consideravano le loro vite, il mondo e ciò che si aspettavano da entrambi. Sia con i Beatles che con Bob Dylan c’era definitivamente la sensazione che la musica fosse cambiata; che tutte le regole fossero state eliminate. Nessuno sapeva più cosa significasse la parola ‘musica’. Ma a parte il folk, penso soprattutto al Kingston Trio e poi a Bob Dylan, ancora non compravo dischi; e le cose non cambiarono fino al 1965, quando mia moglie mi diede tutti gli album dei Beatles come regalo di compleanno. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Ha avuto dei modelli di riferimento?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Beh, ci sono diverse risposte a questa domanda. Una prima risposta è che un giorno del 1964 ho messo “Money” dei Beatles per alcuni amici di Washington DC, e cercavo di convincerli di quanto fosse una grande canzone. Avevo 19 anni e ho iniziato a parlare della metafora che potevamo ascoltare nel suono e dicevo: «Vedi qui puoi sentire l’individuo schiacciato dalla macchina della società moderna, e qui puoi sentire la persona che sta cercando di liberarsi dalla fabbrica e che riesce quasi a scappare ma viene ripresa e ricondotta indietro». Insomma continuavo così e mentre parlavo pensavo: <i>deve essere uno scherzo dire queste cose enormi a livello sociale su una canzone</i>. Ma anche se sentivo che era uno scherzo, sentivo anche che era la verità. Quindi quando ho iniziato a scrivere è stato naturale scrivere in quella maniera. L’altra cosa è che ho iniziato a scrivere della musica dopo aver avuto una meravigliosa educazione nell’università della California e avevo letto molti tipi di libri tremendamente intriganti per me. E poi mi trovavo alla graduate school, a studiare per il master e mi annoiavo. Quando ero all’università, i professori volevano ispirare i propri studenti; ma quando questi si laureavano e si preparavano per il master, li volevano “addestrare”. Quindi era completamente diverso ed io ho iniziato ad integrarmi senza provarci o volerlo, perché era la cosa naturale da fare. Le cose che mi colpivano all’università, unite al fascino che provavo per la musica le misi dentro “Mistery Train”. E il risultato è stato un libro di studi americani concepito con molta libertà. Ma non ho voluto fosse un tentativo di aggiungere significato a qualcosa e neppure di trovare il significato in qualcosa. Era solo il modo in cui pensavo. Mi aveva chiesto chi sono stati I miei maestri, se ho avuto delle ispirazioni: Paul McAle e Leslie Feedler, un critico letterario Americano. <i> </i></span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Era consapevole della qualità del libro? </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Si, sapevo che nessuno stava scrivendo al livello della musica e sapevo che si poteva fare perché altre persone lo facevano in altri ambiti artistici. E non c’era ragione perche non si potesse fare anche nella musica. Voglio dire, potrebbe suonare arrogante o presuntuoso dire sì, io sapevo che era migliore della roba che facevano gli altri. Ma, insomma, l’ho fatto.</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Sembra voler coinvolgere il maggior numero possibile di persone.</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Giusto. La mia meta, la mia intenzione quando scrivo un libro è che il lettore ideale sia qualcuno non interessato al soggetto, che non sa niente di tutto ciò. Che inciampa sul libro…lo trova in una stanza d’albergo…o c’inciampa per strada, lo raccoglie, inizia a leggere e lo trova interessante. Che ci siano abbastanza informazioni nel libro per permettere a chiunque di entrare nella storia ed esserne intrigato. Ma è inteso… non scrivo mai per persone con una conoscenza specifica. Cerco di scrivere nel modo esattamente opposto, senza pontificare: questo e quanto devi sapere per capirlo! Fornire le informazioni senza sembrare di farlo.<i> </i></span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Immagina l’impatto che i suoi libri possano avere fuori dagli Usa? </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Sono molto più conosciuto in Europa. Per esempio per “Lipstick Traces” (“Tracce di rossetto”), perché è un libro sull’Europa.</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Quando lo ha scritto pensava all’Europa?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: No, quando l’ho scritto non avevo altra intenzione che… ho iniziato con l’idea di scrivere un libro sul punk, perché ero stanco del giornalismo e volevo scrivere un altro libro. Non una nobile ambizione. Ed ho deciso che avrei scritto sul punk perché era il 1979/1980 e la roba più interessante che avevo scritto nei pochi anni precedenti era tutta sul punk. Così ho pensato: bene, devo avere qualcosa da dire anche se non so cosa! E poi ho semplicemente iniziato a seguire altre strade; cose di cui altri avevano scritto o detto, suggerito, sul Dada, sui Situazionisti o sugli eretici medievali. Semplicemente sono andato da una cosa all’altra e ho passato tre o quattro anni facendo ricerche, solo leggendo, senza idea alcuna di quale forma o motivo il libro avrebbe preso. È cresciuto fuori da una serie di ossessioni ed in parte viaggiando in tutta Europa; cercando documenti che potevano essere trovati solo in appartamenti privati, roba che non era mai stata raccolta né pubblicata e che dunque non era assolutamente disponibile. Ma che io dovevo avere e che alla fine ho trovato. Effettivamente non c’era altra meta in mente che finirlo. Sai, una volta che ne ero dentro dovevo cercare un modo di uscirne. Lei sa che “Like a Rolling Stone” è stato scritto in un mese. Mentre “Tracce di Rossetto” ha preso 9 anni. Quindi sono diversi. Io capivo tutto ciò di cui parlava quello su Dylan prima di iniziare a scriverlo; non voglio dire che capivo ogni idea che avrei avuto ma capivo il contesto sociale, capivo chi era Bob Dylan e non avevo bisogno di imparare quelle cose. Con “Tracce di Rossetto” non capivo quasi nulla quando ho iniziato a scrivere. Non capivo chi fossero gli artisti europei dell’avant-garde. Per un americano le loro idee sono molto lontane e difficili da comprendere: ci ho messo molto tempo. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Negli Usa ci furono state reazione controverse al libro.</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Mettiamola cosi, quasi tutte le critiche che ho ricevuto all’inizio negli Stati Uniti non erano semplicemente negative. Erano più che negative. Erano arrabbiate o disgustate: erano offese. Ma le persone che lo hanno letto ne hanno parlato ai loro amici dicendo: <i>lo devi leggere</i>. Voglio dire, le mie figlie nel 1989 avevano 20 e 17 anni e hanno entrambe letto “Lipstick Traces”. Un giorno all’università sono stato avvicinato da una donna, aveva sui 23 anni e mi ha detto: <i>Quando ho finito di leggere questo libro volevo tingermi i capelli di tutti i colori della copertina!</i> Ho pensato che fosse il miglior complimento che potessi ricevere. Quindi il libro ha ricevuto una reazione ufficiale molto ostile ma una crescente reazione reale. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Dylan è al centro della sua ricerca…</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Beh, l’editore che negli Usa ha pubblicato il libro sulla canzone di Dylan vorrebbe che io scrivessi un altro libro su un’altra canzone, o su un film, un discorso, un palazzo, qualsiasi qualcosa. A me piacerebbe perché questo è stato molto divertente, ma ancora non ho pensato a niente. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Cosa ne pensa dell’autobiografia di Dylan?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Mi ha impressionato, e leggendola mi sono tornati alla mente i libri degli autori classici americani, come Melville o Faulkner. La cura con la quale il libro è stato scritto, nonostante l’apparente semplicità, è tipica di un grande scrittore.</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Come valuta il lavoro di Ashley Khan? </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Lavoriamo allo stesso modo; anch’io inizio con qualcosa di piccolo e continuo a spingerci sopra finché si muove in altre direzioni e si connette ad altre cose. Non inizio mai con un grande contesto per poi localizzare un buon esempio che parli per quel contesto: faccio esattamente l’opposto. Non so, dipende se stai scrivendo un intero libro su un manufatto estetico o su un evento, dipende se rimani strettamente nell’estetica e scrivi, faccio per dire, di come è avvenuta la nascita del cool jazz, se di questo tratta il libro su Miles Davis di Ashley Khan. O di come fu fatto “Jack Johnson” o qualcosa di simile, o ancora se scrivi in termini più sociali. </span> </p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: Perché il libro è dedicato alla radio?</span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;font-family:verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Ho cercato di pensare a chi dedicare questo libro e ho pensato a molte persone diverse ma nessuno mi ha colpito, non sembrava giusto. Poi mi è venuto in mente che avrei dovuto dedicarlo alla radio perché la radio è dove io ascoltavo “Like a Rolling Stone”; è alla radio dove lo avevo sempre ascoltato e quindi è stata sempre la radio a darmi quella canzone. Ed e stato soltanto un ringraziamento. Lo stato della radio oggi negli Stati Uniti non va bene perché solo un paio di compagnie controllano quasi tutte le stazioni radiofoniche e questo non va mai bene. La maggior parte delle stazioni vengono programmate mesi in anticipo dai computer, perciò le uniche stazioni radio abbastanza interessanti sono quelle dei college, ma anche queste stanno diventando sempre più professionali. Per esempio, mia figlia minore è stata una DJ alla stazione radio dell’Università del Minnesota per circa dieci anni. Il suo turno era dalle sei alle nove di domenica mattina; l’orario meno ascoltato dalla stazione, perché la domenica mattina nessuno si alza presto, nessuno ascolta. Quindi lei era libera di mettere quello che voleva, mentre gli altri DJ della radio avevano una lista dalla quale scegliere i dischi. Dunque anche queste stazioni stanno diventando sempre più controllate. E hai meno possibilità di ascoltare per radio qualcosa di sorprendente rispetto a qualche anno fa. </span> </p> <p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Busca: La musica leggera può ancora esprimere dei messaggi?</span></p> <p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;">Marcus: Non sappiamo cosa succederà. Una situazione può sembrare monolitica a noi, e non intendo includere voi; diciamo soltanto a me, perché ho un’immaginazione limitata e quindi non riesco ad intuire niente che sia davvero diverso dal modo in cui le cose sono adesso. Ha presente quando qualcuno pubblica le previsioni del futuro, in realtà sono soltanto le sottili esagerazioni del presente, non sono fondamentalmente diverse. E quindi nel 1976 nessuno avrebbe detto che avremmo visto migliaia di persone in tutto il mondo che avrebbero formato gruppi musicali per dire che tutto doveva essere reinventato da capo; evitando le quattro o cinque maggiori case discografiche che sembravano controllare tutto e semplicemente scavalcandole. Nessuno lo avrebbe predetto, ma è successo. Oppure è sciocco dire che nessuno l’avrebbe predetto, perché ovviamente alcune persone hanno lavorato duramente per farlo succedere. Io non l’avrei predetto, molte persone non l’avrebbero predetto. Sono un grande credente. La cosa peggiore che si possa dire ad un’altra persona è che non c’è niente di nuovo sotto al sole: questo è soltanto perché non sei stato abbastanza fuori al sole.</span></p> <p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"><span style="font-size:85%;"><br /></span></p> <p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; text-align: right; font-family: verdana;font-family:verdana;"><span style="font-size:85%;">Vittorio Castelnuovo</span></p> <p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"> </p> <p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"></p><p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"></p><p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"></p><p face="verdana" style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"></p><p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"></p><p style="margin-right: 1.28cm; margin-bottom: 0cm; font-family: verdana;" align="justify"></p>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-78532361574446282152008-05-24T03:42:00.000-07:002008-05-24T08:45:19.313-07:00Sull'ascolto<p face="verdana" style="margin-right: -0.59cm; margin-bottom: 0cm; font-weight: bold; color: rgb(255, 0, 0); text-align: right;"></p><div style="text-align: left;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(0, 0, 0); font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family:'Trebuchet MS';font-size:13px;"><p class="MsoNormal" style="text-align: left;margin-right: -16.7pt; color: rgb(51, 51, 51); "><span class="Apple-style-span" style=" ;font-size:13px;"></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> Nel suo recente libro “Breve storia del futuro”, edito da Fazi, mettendo insieme narrativa di anticipazione, approcci visionari ed osservazioni più attinenti la realtà, Jacques Attali ha indicato nel buon uso delle innovazioni tecniche e nella condivisione delle capacità creative la possibilità di migliorare la condizione umana, gettando le basi per la nascita di un’iperdemocrazia planetaria davvero a beneficio di tutti. Tra i più attivi intellettuali contemporanei Attali è stato in passato una figura di spicco della sinistra francese, consigliere di Francois Mitterand e responsabile della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo; prima di accettare l’incarico offertogli dal presidente Sarkozy di dirigere la Commissioni sui freni della Crescita, di cui si è discusso anche nel nostro paese. </span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Se l’idea di partenza di sviluppare un rapporto più maturo con gli oggetti e i prodotti industriali, dal personal computer al telefono mobile, non rappresenta una novità assoluta - fermo restando l’urgenza delle implicazioni sociali sull’impatto della tecnologia nella trasformazione dei servizi collettivi tipo la sanità, l’educazione e la sicurezza - colpisce la riflessione sulla necessità di assegnare all’esperienza artistica un ruolo di primo piano. Di fatto l’arte ci insegna come molte cose, con le quali oggi conviviamo, in realtà siano già successe. Noi pensiamo per esempio che Mandela - la cui biografia, scritta dall’ex ministro francese della cultura Jack Lang, esce in questi giorni per Piemme - sia stato un leader nuovo nella storia del pianeta. Eppure l’ultima opera di Mozart, “La clemenza di Tito”, racconta proprio la vicenda di una figura simile la sua; che perdona le persone che hanno tentato di ucciderlo e cerca di creare un nuovo governo con chi voleva eliminarlo. Gli uomini di potere piuttosto che domandarsi a cosa serva l’arte, considerandola un’avversaria piuttosto che una componente della vita pubblica, dovrebbero riflettere come essa possa essere alla testa della democrazia. </span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">All’interno di questa ricerca, dove i contenuti degli eventi sono analizzati su un piano insieme collettivo e profetico, è in particolare nella musica che Attali indica l’occasione di cogliere la diversità e l’attaccamento alla vita; sulla falsariga del filosofo Gilles Deleuze, teorico della differenza e del movimento, che era affascinato dalla possibilità del cinema di dare attraverso le ombre e le luci un senso di realtà, capace di superare i limiti dello spettacolo e diventare gran teatro dell’esistenza. Da secoli la nostra cultura cerca di guardare il mondo; non ha capito, sembra volerci dire l’autore, che il mondo non si guarda, si ascolta. Sono parole che ancora adesso aprono un cammino all’esplorazione dell’irrazionale, sviluppano un’ombra filosofica e creano un flusso nomade del desiderio, ma che Attali aveva già messo insieme e pronunciato. Quando, nel 1977, scrisse “Rumori”; un pamphlet sull’economia politica della musica che suscitò parecchio scalpore, pure in Italia dove fu pubblicato da Mazzotta, all’interno del quale decifrava il </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">suono</span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> come uno dei luoghi dove cominciano i mutamenti e si può capire meglio quali speranze siano ancora possibili. </span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Se esista dunque un modo di ascoltare tipico della nostra età e in quali forme a partire dalla fine del Novecento esso si sia affermato, è un interrogativo che si sono posti molti pensatori. E’ stato il filosofo Mario Perniola a gettare le basi di questa indagine; dando alle stampe per Einaudi, nel 1991, “Del sentire” ed individuando nel passato remoto dell’Occidente, quello dell’antichità classica, un’opportunità di </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">percepire</span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> radicalmente opposta a quella attuale e anonima del già sentito. Un’interpretazione alternativa al palinsesto sensologico che conosciamo e inseparabile dall’esercizio della filosofia; in grado di soddisfare il desiderio di conoscenza e di costituire altresì una guida per l’azione, convocando le grandi opzioni del pensiero moderno fino all’amore del mondo.</span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">In una direzione parallela si inscrive l’approccio del filologo Maurizio Bettini che in “Voci”, uscito per Einaudi, ha raccolto un’antropologia sonora del mondo antico. Persino commuovente nel ricreare una fonosfera popolata da lupi e lepri, miti dolorosi di usignoli e rondini, merli romani, francolini greci, upupe siciliane, pettirossi francesi; combinati con il colpo di martello dei fabbri, lo strepito delle macine dei mugnai, il cigolio dei carri e il suono della frusta. Risuonano così i canti degli uccelli, le grida degli animali e le lontane parole degli uomini. Voci che gli antichi consideravano messaggi di buono o cattivo augurio; capaci di predire il futuro, annunciare la nuova stagione e persino di resuscitare antiche leggende come di fornire ai musicisti e ai poeti un castello di memorie sonore, all’interno del quale scovare occasioni precedentemente ignorate di conforto.</span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Una presa di posizione sull’inciviltà del rumore arriva invece da Gillo Dorfles, che in “Horror pleni”, edito da Castelvecchi, si scaglia contro la saturazione del mondo dei media. Il critico d’arte si domanda se in un’epoca satura di segnali; mortificata dalla pubblicità e dalla propaganda politica; stordita dalla produzione incontrollata di letteratura, arte e moda; e che nel frattempo ha perduto la memoria degli interminati spazi e dei sovrumani silenzi delle origini, sia possibile mantenere una consapevolezza. Con il loro groviglio di messaggi, creature virtuali ed eventi immaginari, i nuovi orizzonti dell’espressione digitale minacciano di tagliarci fuori dal divenire della cultura e di distorcere il nostro gusto. Eppure Dorfles ci invita lo stesso ad attraversarli, impegnandoci a riempirli di senso ed opponendoci a questa catena di eccessi con ogni nostra capacità informativa e comunicativa; mantenendo così inalterate, pure nel cambiamento, la nostra umanità e la nostra libertà, pure se questo passo comporta una maggiore insicuezza.</span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Epicentro di questo tragitto è stato il contributo reso dallo studioso canadese Marshall McLuhan. Professore di letteratura inglese, lettore appassionato della tradizione classica ed estimatore del modernismo angloamericano, McLuhan si affermò come guru dei mass media; per aver esplorato l’approccio attraverso il quale i mezzi di comunicazione riconfigurano l’ambiente e condizionano la psiche umana; e per aver collegato, proprio grazie alla tradizione umanistica, la percezione del processo poetico della letteratura e delle arti in una strategia privilegiata per far adattare l’utente al mondo contemporaneo. Nel 1969 lo studioso ebbe a dichiarare: «L’alfabetismo ha estromesso l’uomo dalla tribù, gli ha dato un occhio al posto dell’orecchio ed ha sostituito il suo sentimento di appartenenza collettiva, totale e in profondità con i valori visivi e lineari e con una conoscenza frammentaria. Di qui un possibile nota di ottimismo. Se la civiltà elettronica esalterà di nuovo l’orecchio, il senso della vicinanza, vi è qualche speranza che le divisioni possano attenuarsi». Da questa riflessione ha preso inizio il ragionamento di Michael Bull e Les Back in “Paesaggi sonori”, stampato da Il Saggiatore. Se vista e udito hanno un ruolo parimenti decisivo nella comprensione del mondo, ricordano i due ricercatori, il campo visivo ha sempre dominato i dibattiti sull’esperienza culturale. Finora infatti l’approccio con cui entriamo in relazione col mondo e lo pensiamo è sempre stato influenzato più dalla vista che dall’udito. Combinando sociologia, cultural studies, filosofia, antropologia, geografia urbana e musicologia, il saggio evidenzia questa rivalità, svelando invece quanto la vicenda acustica abbia inciso nella nostra esistenza. I rintocchi dei campanili dei villaggi nei comuni francesi, le processioni protestanti nell’Irlanda del nord, le dinamiche della vita d’appartamento accompagnate dai suoni della radio in Gran Bretagna, le passeggiate metropolitane con la musica in cuffia nelle città europee, le feste reggae, le manifestazioni politiche e i rituali religiosi. Dal suono evocativo delle campane di paese al chiasso stridente del traffico stradale, ciò che udiamo modifica i nostri stati d’animo e le nostre azioni. Oltretutto con l’avanzare della tecnologia, il mondo è diventato sempre più rumoroso e inquietante, e per difenderci dai rumori siamo andati alla ricerca di nuovi suoni in grado di calmarci, proteggerci e alleviarci. Esaminando i rumori della città, i suoni e le voci, il saggio assegna all’esperienza acustica un ruolo definitivo in ambito storico e sociale. L’impatto violento dei tafferugli della Belfast divisa, quello ancestrale delle cerimonie tribali fra i nativi d’America, il frastuono urbano nella Londra del Seicento, il potere ammaliante della voce dei dj, quello persuasivo dei leader politici; tutti insieme offrono inediti punti di vista su cosa significhi conoscere il mondo attraverso il suono ed invitano a pensare con le proprie orecchie. Ci suggeriscono come ogni giorno regoliamo lo spazio e il tempo tramite il suono. Perché l’orecchio è senza difese, e l’uomo è sempre in ascolto.</span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Se dunque la concezione della vita pare essersi frantumata, non essere più riconducibile a un’immagine coerente e sollecitata piuttosto da numerose altre trame teoriche, è la riflessione attorno al presentire che orienta oggi il lavoro di molti pensatori. Essa proviene nel Novecento da opere non direttamente connesse con l’estetica; eppure necessarie, toccando l’ambito degli affetti e delle emozioni, per la ridefinizione delle attuali forme di conoscenza. Così non sorprende che il filosofo francese Peter Szendy ripercorra la disciplina della sorveglianza uditiva in “Intercettare”, uscito per Isbn, ricostruendo una sorta di archeologia dell’origliare, dalle tecnologie primitive fino ai computer, e ripercorrendone la rappresentazione artistica dalla Bibbia a Hitchcock fino a David Lynch; inclusa la citazione della magistrale messa in scena di Francis Ford Coppola ne “La conversazione”, il film sulla sorveglianza girato nel 1974 al tempo del Watergate. A metà strada tra una mistica dell’ascolto e una bizzarra fenomenologia dello spionaggio, la volontà di Szendy appare quella di nutrirsi del nesso contraddittorio tra vedere e sentire, alimentando in questa maniera l’idea della scrittura come possibilità per imparare ad ascoltare. Nel significato della sua ricerca si intrecciano un lessico di ispirazione filosofica, con una forte connotazione visiva, ed un’originale commistione di punti di vista. Seguendo l’esempio di Jacques Derrida, il filosofo francese teorico della decostruzione che con infinita tenacia ha ripensato la problematica dell’opposizione e dell’alterità, Szendy gioca con il proprio ruolo di osservatore e testimone, all’interno dell’esterno e viceversa; non smettendo di generare doppiezza, duplicità e duplicazione e condensando semmai il passato e il futuro in un tempo che li confronta sul limite del pensiero presente. </span></span></span></p><p style="margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; text-align: justify; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Il messaggio di questi libri ci dice come non si possa giungere esclusivamente attraverso il ragionamento e l’azione alle nozioni sulle quali poggia la sensibilità contemporanea. Per molti teorici esse richiedono un </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">sentire </span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">differente, straniante, rintracciabile in un’esteriorità irriducibile allo spirito, in una scrittura impronunziabile, in una ritualità incomprensibile, oppure nelle vaste sfumature dell’universo femminile. La donna infatti non è il segno di un ordine stabilito ma la traccia di tutte le minoranze e di ogni possibile linea di fuga, esprimendo una volontà differente dell’agire nella vita. E’ il dialogo con lei declinato nella letteratura, nel metodo, nella psicanalisi, che fornisce alla diversità una chance, mutando la mediazione in una sperimentazione e infine in una composizione. Queste istanze, aggiungendosi a quelle già note della politica, della scienza e della comunicazione, fanno compiere al sentire una svolta. Sulla cui portata dobbiamo interrogarci, perché il significato della loro differenza le trasforma in qualcosa che ancora non sappiamo. Eppure ne avvertiamo la forza necessaria per cambiare il nostro modo di desiderare il mondo.</span></span></span></p><p style="text-align: right; margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0); font-weight: bold;"><br /></span></p><p style="text-align: right; margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0px; margin-left: 0px; font: normal normal normal 12px/normal Arial; "><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">Vittorio Castelnuovo</span></span></span></p><p></p></span></span></div>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-91541141032846319812008-05-19T03:15:00.000-07:002008-05-24T07:33:20.740-07:00<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(204, 204, 204);font-family:'Trebuchet MS';font-size:13;"><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:16;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><br /></span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:16;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;">scrivi a Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:16;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><br /></span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:16;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;">igiradischi@libero.it</span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51); font-style: italic; font-weight: bold;font-family:verdana;font-size:16;"><br /></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51); font-style: italic; font-weight: bold;font-family:verdana;font-size:16;"><br /></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51); font-style: italic; font-weight: bold;font-family:verdana;font-size:16;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(106, 106, 106); font-style: normal; font-weight: normal;font-family:Tahoma;font-size:12;"><p class="MsoNormal" style="margin: 0px 0px 0.75em; text-align: center; line-height: 1.6em; color: rgb(51, 51, 51);"><b><i><span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;">La luce cambia nell'appartamento</span></span></span></span></span></i></b><b><i><span><span style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-style: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"> </span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 102, 102); font-style: italic;font-size:13;"></span></span></span></span></span></span></i></b></p><p class="MsoNormal" style="text-align: left;margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0.75em; margin-left: 0px; line-height: 1.6em; color: rgb(51, 51, 51); font-size:0.87em;"><b><i><span><span style="font-size:100%;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:14;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: normal;font-size:16;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 102, 102); font-style: italic;font-size:13;">(</span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 102, 102); font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;">tratto da www.igiradischi.com del 26 Aprile 2006)</span></span></span></span></span></span></span></span></i></b></p><p class="MsoNormal" size="0.87em" style="text-align: left;margin-top: 0px; margin-right: 0px; margin-bottom: 0.75em; margin-left: 0px; line-height: 1.6em; "><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana; line-height: normal; "><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Le radici di una parte del nostro immaginario collettivo affondano in quel lungo periodo di tempo che inizia a flettere il proprio arco nella seconda metà degli anni Cinquanta, e che termina la propria corsa nella seconda metà degli anni Settanta. Un’affascinante racconto musicale di quell’epoca è stato pubblicato recentemente: ci riferiamo al bellissimo cofanetto “Washington Square Memoirs”, a suo tempo segnalato da questo giornale, che riassume le tappe principali della canzone americana d’autore; sia quella che non oltrepassò le soglie della dimensione artistica, sia quella che divenne invece strumento di denuncia e di propaganda. Fu all’interno di quel lungo spazio di tempo che, grazie ad una maggiore distensione politica, prodotta dalla “nuova frontiera” di John F. Kennedy, e da un prodigioso sviluppo economico che investì anche numerosi paesi europei, molti artisti contribuirono a diffondere modelli di vita alternativi rispetto a quelli consueti, riflettendo gli umori delle generazioni che si affacciavano su quell’inedito panorama storico: dai temi dell’amore e della pace a quelli della rivolta. Andy Warhol, che fu uno dei principali protagonisti di quelle stagioni nell’ambito culturale, ne sintetizzò lo spirito avventuroso e sincero: «Devi credere pure in qualche cosa, perché le cose possono sempre peggiorare».</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><br /></span></p><b><span style="font-size:100%;"><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span><span style=""><span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">La guerra in Vietnam, che a metà degli anni Sessanta coinvolse sempre di più gli Stati Uniti e caraterizzò la scena mondiale, creò un’opposizione interna all’America stessa. Essa infatti favorì la crescita di un movimento giovanile di protesta, che raggiunse la massima estensione negli ultimi anni del decennio, quando tuttavia i conflitti sociali si inasprirono senza alcun rimedio, facendo svanire l’ottimismo con cui quell’esperienza era iniziata. E’ stato ormai ampiamente dimostrato come gli scrittori della beat-generation, che si imposero all’attenzione mondiale proprio in quel frangente, furono non solo tra gli interpreti principali di quella straordinaria gamma di umori, ma soprattutto ne furono gli autori. Le curiosità e le aspettative con le quali molti ragazzi, ancora oggi, si avvicinano alla letteratura di ogni epoca, sono andate formandosi anche grazie all’impatto che quegli scrittori ebbero tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Un impatto talmente forte da sopravvivere alla scomparsa fisica dei suoi portavoce, dei quali oggi rimane, solitario, Lawrence Ferlinghetti, che l’autore di questo articolo ha avuto il privilegio di frequentare, cogliendone il senso di speranza che ancora contraddistingue il suo franco impegno di poeta, di editore, di attivista, di pittore e, non ultimo, di fresco studente d’italiano.</span></span></span></span></span></span></span></span></p><b><span style="font-size:100%;"><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span style=""><span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Queste emozioni restano sempre attuali, ma vengono ora risvegliate dall’anniversario della pubblicazione di “On The Road”, avvenuta nel 1965; e dalla lettura di alcuni libri, tra cui “Jack Kerouac”, scritto dal giornalista inglese David Sandison e edito da Mondadori, e “Jack’s Book”, realizzato da Barry Gifford e da Lawrence Lee nel 1978 e pubblicato in Italia dall’editore Fandango. Il libro di Sandison si fa apprezzare per l’inusuale combinazione di parole e immagini e visualizza in maniera molto suggestiva l’abbandono, da parte di Kerouac, del modo di vita legato alla tradizione, convinto com’era che la letteratura avesse a che fare con l’esistenza stessa. Contemporaneamente il testo racconta l’estetica dello scrittore, fatta di solitudine e destino, di bellezza sbandata, dove ciascuno</span></span></span></span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> ricomincia dall’inizio</span></span></span></span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">, come colpito da un’incantesimo; l’’incantesimo lanciato da Kerouac, che svela come non sia necessario accollarsi un’esistenza immobile, e attaverso il quale</span></span></span></span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">viene recuperata quell’innocenza che avvicina tutti i grandi narratori americani, da Jack London a Raymond Carver; e che provoca, infine, quell’inquietudine che dà un senso particolare al sentimento, portando ad una vitale contraddizione rispetto allo sviluppo della modernità statunitense. Il libro di Barry Gifford e Lawrence Lee è ancora più importante sul piano critico, perché raccoglie le testimonianze dei poeti, dei musicisti, dei profeti, della gente comune che hanno conosciuto Kerouac o che hanno lavorato o vissuto con lui. E’ un testo classico della letteratura americana contemporanea, stampato con incomprensibile ritardo nel nostro paese ventitrè anni dopo la sua apparizione. Lawrence Lee, scomparso undici anni fa, è stato un giornalista molto attivo sia sul fronte editoriale che su quello televisivo. Barry Gifford invece, come ben sanno i lettori di questa rivista, è uno dei </span></span></span></span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">nostri</span></span></span></span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> autori. Affermatosi con “Cuore Selvaggio”, da cui David Lynch trasse l’omonimo film nel 1990, il romanziere è stato forse quello che ha raccontato meglio l’America stracciona e disperata dei luminosi anni Novanta, quella che ancora vive di espedienti, nel bel mezzo del più sfrenato consumismo.</span></span></span></span></span></span></span></span></p><b><span style="font-size:100%;"><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span style=""><span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">E’ stato sottolineato parecchie volte come uno dei principali risultati raggiunti dagli scrittori di quel movimento fu la capacità di visualizzare le contraddizioni della vita americana. Kerouac in particolare sviluppò una scrittura in grado di scuotere la fantasia e la coscienza di molte persone. Le sue parole potenti illuminarono il buio dell’immaginazione giovanile di allora, e gli audaci accostamenti dei suoi testi provocarono uno shock tale da produrre una formidabile volontà creatrice. Tutti quei ragazzi che avevano paura a realizzare i propri sogni e a spogliarsi dei propri tabù, trovarono nel linguaggio di Kerouac un inaspettato modello di riferimento. Lo scrittore cercò di raggiungere questo ideale in tutti i suoi lavori. Per esempio nel suo libro più importante, “Sulla Strada”, che egli scrisse nel 1951, ma che fu stampato sei anni dopo a causa dell’offensiva di tutti gli editori. E questo ideale di indipendenza intellettuale, questo ininterrotto inseguimento della bellezza e del sogno, segnò anche il titolo più difficile della sua bibliografia: il diario di una fantastica infanzia perduta de “Il Dottor Sax”, che resta un piccolo capolavoro di letteratura astratta e probabilmente il testo meno conosciuto di Kerouac. Per molti appassionati</span></span></span></span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">che hanno utilizzato la musica rock come campo base per le successive esplorazioni culturali, la letteratuta beat è stato un naturale punto d’approdo. Potremmo aggiungere che essi sono stati, rispetto alla letteratura, quello che furono i musicisti rock rispetto alla musica leggera, trasformando un’epoca storica nell’</span></span></span></span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">età dei filosofii del cielo</span></span></span></span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">. Sembrava davvero che avessero tutti fatto tesoro di quella osservazione di Tertuliano: «Si può credere perché è illogico».</span></span></span></span></span></span></span></span></p><b><span style="font-size:100%;"><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span style=""><span><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">E c’era effettivamente qualcosa di illogico, ma anche di meraviglioso, nell’aspirazione che avvicinava questi scrittori ai complessi rock, ai registi cinematografici come Dennis Hopper, ai nuovi ruggenti autori di teatro come Julian Beck e Judith Malina, agli eroi della denuncia come Lenny Bruce, e al pubblico che seguiva questo percorso di illusione e di speranza: il sogno di una società non violenta, libera e democratica. Una società di pace, come molti di quegli artisti avevano imparato a concepire, da ragazzi, leggendo i libri di Walt Withman, vero padre putativo di tante arte americana contemporanea. E dalla sua lettura avevano mutuato anche gli strumenti del loro impegno: le parole, la poesia, il linguaggio, rivendicando così il ruolo centrale dell’utopia. Questa nuove e documentate pubblicazioni su Jack Kerouak arrivano oltretutto poco tempo dopo un’altra significativa iniziativa editoriale: la bella biografia collettiva di James Campbell dal titolo “Questa E’ </span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><personname st="on" productid="La Beat Generation"></personname>La Beat Generation ”, edita da Guanda, e che riassume piuttosto bene lo spirito con il quale i beatnicks avevano condiviso gioie e dolori della loro non facile esistenza. Tutte queste notizie - alle quali bisogna aggiungere quella della recente pubblicazione dell’opera omnia di Kerouac, da parte della prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori - ribadiscono, una volta di più, l’attualità di questo messaggio. Un messaggio alimentato, nel corso del tempo, dall’attività di molti artisti che si sono ispirati all’universo simbolico dei beat; basti pensare, per restare nell’ambito del rock, al lavoro di Tom Waits, o alle collaborazioni di Bill Laswell e del povero Kurt Cobian con William Burroughs. Ma il messaggio di Jack Kerouac, e di tutti gli altri esponenti della beat-generation, è stato soprattutto rinnovato dalle aspettative del pubblico giovanile, che ha da tempo individuato in quei libri e in quelle visioni la fonte della propria speranza di libertà: la libertà di vivere, e la libertà di pensare.</span></span></span></span></span></span></span></span></p><b><span style="font-size:100%;"><p style="text-align: right;font-size:0.87em;"><span style=""><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"> Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></span></span></p></span></b></span></b></span></b></span></b></span></b></span></span><p></p></div></span>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-64072121636965296062008-05-18T10:19:00.001-07:002008-05-24T03:46:14.336-07:00<div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:medium;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><br /></span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:medium;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;">scrivi a Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:medium;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><br /></span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:medium;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;">igiradischi@libero.it</span></span></span></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51); font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><br /></span></span></div><div style="text-align: center;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 51); font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(106, 106, 106); font-style: normal;font-family:Tahoma;font-size:12;" ><p class="MsoNormal" style="margin: 0cm 7.3pt 0pt 0cm; text-align: center;font-size:0.87em;"><b><i><span style=""><span style="font-size:100%;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">Se una Radio è libera, </span></span></span></span></i></b><b><i><span style=""><span style="font-size:100%;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">ma libera veramente, </span></span></span></span></i></b><b><i><span style=""><span style="font-size:100%;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">non usa le play-list.</span></span><span class="Apple-style-span" style="font-size:14;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span><span class="Apple-style-span" style="font-style: normal;font-size:16;" ><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 102, 102); font-style: italic;"></span></span></span></span></span></span></span></i></b></p><p class="MsoNormal" style="margin: 0cm 7.3pt 0pt 0cm; text-align: center;font-size:0.87em;"><b><i><span style=""><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-style: normal;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 102, 102); font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;">(tratto da www.igiradischi.com del 18 Aprile 2006)</span></span></span></span></span></span></span></span></i></b></p><b><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:georgia;"> <span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">Nella puntata di giovedì 9 marzo de “L’Incudine”, il programma che va in onda su Italia Uno e che è condotto da Claudio Martelli, si è discusso degli anni Ottanta. Tra gli ospiti c’era Carlo Massarini, che per tanto tempo è stato tra le figure professionali più apprezzate della Rai. Nel corso della trasmissione Massarini ha accennato al problema della Play-list, e di come esso danneggi i palinsesti delle radio pubbliche e private. Immaginiamo che i telespettatori ai quali non è estraneo il problema, per un attimo avranno avuto un sussulto. Si saranno detti: finalmente qualcuno che tira fuori l’argomento. Ma l’illusione è durata pochi secondi; perché tra una battuta e un’altra, e complice soprattutto una malcapitata pausa pubblicitaria, il tema, che pure aveva colpito l’attenzione dei presenti, non è stato approfondito. Di cosa si lamentava Carlo Massarini? Del fatto che rispetto al passato i programmi delle emittenti siano condizionati da un sistema di controllo della messa in onda, chiamato appunto Play-list. Un sistema che non solo ha peggiorato il livello dell’offerta radiofonica, abbassando gli standards generali, ma ha finito col diventare uno strumento di censura. Bisogna fare un passo indietro e spiegare per bene di cosa stiamo parlando; anche se parliamo di una cosa sotto gli occhi, </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">sotto le orecchie</span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">, di tutti; ma sappiamo per esperienza che non tutti ci fanno caso fino a quando non viene fatto loro notare. </span></span></span><personname st="on" productid="La Play-list"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">La Play-list</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> è un’invenzione degli americani, maturata alla metà degli anni Settanta. L’idea di partenza era buona: per caratterizzare una stazione radio, e renderla così immediatamente riconoscibile agli ascoltatori, era stato deciso di creare una sorta di biglietto da visita musicale, con l’allestimento di una selezione di canzoni o di brani strumentali. La selezione veniva regolarmente aggiornata, mantenendo fede allo scopo iniziale: connotare la programmazione radiofonica, e differenziarla da quella delle altre emittenti.</span></span></span></span></p></b><b><span style=""><span><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">Ora non è più così, ammesso che in Italia lo sia mai stato, e</span></span></span><personname st="on" productid="La Play-list"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">la Play-list</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> è diventata la principale, e al momento imbattibile, avversaria della libertà dell’informazione di settore; privilegiando la musica di consumo ed escludendo tutto il resto. Peggio ancora: il cattivo e spesso poco comprensibile - poco comprensibile? - utilizzo di questo meccanismo, ha creato un’omologazione a causa della quale è diventato impossibile scorgere la differenza di una radio dall’altra. Tutte trasmettono lo stesso prodotto: si chiama avvilente e attuale. Se ne accorto persino il Priore Enzo Bianchi; citando il decadimento della bellezza musicale all’interno di un bell’articolo </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">sul silenzio</span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> apparso su </span></span></span><personname st="on" productid="La Stampa"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">La Stampa</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> lo scorso 19 Febbraio. Del resto, che le cose si mettessero male lo si era capito durante gli anni Novanta; quando </span></span></span><personname st="on" productid="la Rai"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">la Rai</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> decise di smantellare, dopo avere fatto lo stesso con altre produzioni, una delle sue trasmissioni più gloriose: “StereoNotte”. A nulla valsero le rimostranze dell’opinione pubblica. Nata all’inizio degli anni Ottanta, da un’ idea di Pierluigi Tabasso, “StereoNotte” era dedicata esclusivamente alla buona musica. E per oltre dieci anni fornì agli appassionati ogni giorno, da mezzanotte alle sei, un ascolto fuori dal comune. Alternando i migliori specialisti, ed offrendo un’irripetibile possibilità di apprendimento; pure se oggi adoperare la parola </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">apprendimento</span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">, nell’ambiente Rai, significa passare per dei poveri imbecilli. La chiusura quasi definitiva di questa trasmissione, che oggi vivacchia andando in onda una volta la settimana, è diventata simbolica dell’accanimento verso la musica non commerciale. Un accanimento apparentemente privo di spiegazioni, pure per i professionisti più affermati. Da Renzo Arbore, che tanto si è battuto per la conoscenza nel nostro paese della buona musica, a Tiberio Timperi, che non perde occasione per denunciare questo malcostume. Sia Arbore che Timperi sono stati tra i testimoni di un libro del giornalista Renato Sorace, intitolato “EffeEmme” ed uscito la scorsa estate per i tipi di Memory. Sorace ha raccontato l’intensa stagione degli anni Settanta scegliendo come percorso narrativo quello della nascita delle radio libere. E facendo rivivere il clima di quel periodo storico, dove l’onda lunga degli anni Sessanta trovò una nuova intonazione anche grazie all’impegno di case editrici come </span></span></span><personname st="on" productid="la Savelli"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">la Savelli</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> , </span></span></span><personname st="on" productid="la GammaLibri"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">la GammaLibri</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> , </span></span></span><personname st="on" productid="la Lato Side"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">la Lato Side</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> , Stampa Alternativa, l’Arcana di Raimondo Biffi. Editori che avevano individuato un’inedita visione della cultura popolare; attraverso un altro modo di esplorare l’immaginazione, nel quale le parole e la musica creavano un canone originale, un rapporto circolare che pian piano prendeva le forme di un racconto melodico.</span></span></span></span></p></span></span></b><b><span><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span class="Apple-style-span" style=""><span><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">In quell’intervento di pochi istanti Massarini ha evocato una dimensione che non c’è più, che è scomparsa senza lasciare traccia. Come senza lasciare traccia sono spariti gli addetti ai lavori che hanno creduto in quell’esperienza, investendo tutte le loro risorse sulla musica di qualità e sulla sua diffusione. Ci sono ragioni storiche che spiegano questo fenomeno, poiché da noi occuparsi di canzonette non è mai stato giudicato un mestiere vero e proprio. Il boom della musica leggera avvenne negli anni Cinquanta, sulla scia del successo del Festival di San Remo, e prese in contropiede il mondo dell’editoria, che sbagliò la valutazione del fenomeno considerandolo transitorio. Ma sul momento bisognava soddisfare la curiosità degli utenti verso quella nuova area giornalistica; alla quale furono avviati, nel convincimento che l’interesse sarebbe stato di breve durata, coloro che bazzicavano le redazioni senza nessuna specifica competenza. L’idea era che parlare di Claudio Villa o di Modugno, di Mina o di Celentano, di Frank Sinatra o di Elvis Presley fosse una cosa che chiunque era in grado di fare. Questo spiega perché nel corso del tempo si alternarono numerosi critici competenti di musica popolare, di jazz, di canzone politica - come Testoni, Leydi, Straniero, Polillo, Liberovici - e pochi di musica leggera. L’avvento trent’anni fa delle riviste specializzate, seguito da quello dei libri e delle radio indipendenti, sembrava avere creato un movimento, assegnato una prospettiva. </span></span></span><personname st="on" productid="la Rai"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">La Rai</span></span></span></personname><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> ne aveva mano a mano preso coscienza, e aveva sviluppato un proprio stile. Neppure si intravedeva la miseria attuale. Era un miraggio malato. Ricordate com’era bello accendere la televisione e vedere “Mister Fantasy” o “DOC”? Succedeva da noi, di sera, parecchi anni fa. Parecchi anni prima di venire convocati da imbarazzanti funzionari dell’azienda di stato, e ricevere sonore reprimende perché poco brillanti al microfono. Perché bisognava </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">lanciare</span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> i Pink Floyd sghignazzando; ed ispirarsi semmai a Fiorello, ormai considerato - pur tenendo conto di quanto è in gamba - alla stregua di Buster Keaton. Era concessa pure qualche imprecazione, secondo quegli avvilenti suggerimenti, a patto di ricordarsi di </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">essere dei soldati Rai</span></span></span></i><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">.</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span></span></span></p></span></b><b><span style="font-size:100%;"><p style="text-align: left;font-size:0.87em;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span><span class="Apple-style-span" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">Ora risuona beffarda, come una canzone agrodolce, la battuta di Achille Campanile; quando parlava dell’Italia come del paese delle inaugurazioni, ma non della manutenzione. Campanile non era un Disc-jokey, e pensava sicuramente ad altro quando pronunziò quell’amara osservazione, però ci aveva preso. Ci affrettiamo ad inaugurare Case del jazz o del cinema - e che ben vengano, ci mancherebbe - ma se cerchiamo di ascoltare un pò di buona musica alla radio possiamo attaccarci al tram. A meno che l’indomani non dobbiamo recarci al lavoro, allora possiamo stare svegli fino a notte tarda ed apprezzare l’offerta, raffinata ma esclusiva, di Radio Tre. Diventeremo dei carbonari: faremo le cose di nascosto, al buio, magari indossando una barba finta. E’ troppo poco. I colleghi della carta stampata tuonano di fronte al successo del pianista jazz Keith Jarrett, o del cantautore brasiliano Caetano Veloso. Che riempiono piazze e sale da concerto anche in Italia; ma che non sentiamo o vediamo da nessuna parte, come semplici utenti di radio e tv. Coloro che ci guidano nella vita e nelle scelte di ogni giorno hanno priorità più urgenti da provare a risolvere, ce ne rendiamo conto. Però fa rabbia, e provoca qualche sospetto, che le persone più attrezzate non ne discutano abbastanza nelle sedi opportune. La rinascita di un paese non passa esclusivamente attraverso l’economia; che, intendiamoci, rimane la componente fondamentale per l’abbattimento, o il ridimensionamento, dei problemi sociali. Tuttavia è importante riformulare realmente anche la questione culturale; scoprendone, in seguito, le sorprendenti ripercussioni anche sul piano economico. E la questione culturale non esclude, piuttosto coinvolge, l’educazione musicale. La qualità dell’ascolto ha eccome una valenza politica. E questa valenza non si esaurisce contattando i migliori architetti e realizzando Auditorium, che dovrebbero essere i punti d’arrivo di un processo di formazione. Al contrario, sono i punti di partenza che non troviamo. Eppure stiamo parlando di mandare in onda qualche bella canzone, mica progettare lo sbarco sulla luna. Ecco perché, nonostante ci sia parecchio da aggiungere - per esempio su come sono state amministrate,</span></span></span><span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;">da parte dei professionisti del settore, quelle poche chances che sono state date - questo articolo somiglia più a uno spiraglio.</span></span></span></span></p><p style="text-align: right;font-size:0.87em;"><span class="Apple-style-span" style=""><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><span class="Apple-style-span" style="font-size:x-small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family:verdana;"> Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></p></span></b></span></span></div>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-42904543086877045922008-03-11T00:00:00.000-07:002008-07-14T05:45:48.761-07:00Su David Lynch<div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana; font-size: 13px; "><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Una domanda che si posero in molti dopo aver visto “Eraserhead”, il primo lungometraggio di David Lynch nel 1976, era come un autore appena trentenne sarebbe riuscito, all’interno dell’industria hollywoodiana, a sviluppare la propria utopia visiva, connotata da un’immaginazione assolutamente fuori dal comune. Un dubbio che passò per la mente pure di Stanley Kubrick, il quale apprezzò il film al punto da dichiarare di considerarlo uno dei suoi preferiti di tutti i tempi. L’episodio è riportato in “Acque profonde”, in questi giorni in libreria per i tipi di Mondadori, dove sono raccolte meditazioni e piccole forme di creatività che il regista ha trascritto nel corso del tempo e dedicato al Maharishi Yogi; mentre contemporaneamente Marsilio pubblica un volumetto di ispirazione saggistica curato da Paolo Bertetto. Insieme questi due testi compongono un omaggio al mondo visionario del regista, mostrando come sia stato capace, grazie la sua immaginazione, di combinare figurazione e astrazione in un’unica e oscura materia audiovisiva. </span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><br /></span></div><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: 13px; "><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">La stampa parlò di “Eraserhead” come di una pellicola che bisognava sentire più che spiegare; e indicò in Lynch il capostipite dell’avanguardia cinematografica, anticipando la tendenza della critica a riconoscerne il talento come uno dei più originali del cinematografia contemporanea. Lynch si era appassionato al cinema la prima volta attorno la metà degli anni Sessanta a Philadelphia, dove studiava presso la Pennsylvania Academy of Fine Arts. Prima di allora la sua attenzione era rivolta esclusivamente alla pittura, e per questa ragione aveva abbandonato gli studi per iscriversi alla Boston Museum School, per poi intraprendere un viaggio in Europa allo scopo di studiare col pittore Oscar Kokoschka. Avendo in comune con i suoi futuri progetti un approccio narrativo coraggioso è verosimile ritenere che Lynch fosse a conoscenza delle otto litografie con le quali nel 1914 Kokoschka illustrò “La muraglia cinese”; il brillante saggio che cinque anni prima Karl Kraus scrisse sulla falsità della morale sessuale odierna e scaturito da un episodio di cronaca nera: l’assassinio, nel quartiere cinese di New York, della missionaria bianca Elsie Siegel per mano del suo amante cinese, a quanto si diceva dotato di molteplici esperienze nell’arte amorosa. Fu in quel periodo che il regista maturò il proprio stile, dirigendosi verso misteriose astrazioni materiche e componendo grandi mosaici di figure geometriche che intitolò Industrial Symphonies. Questa inclinazione lo portò ad interessarsi alle possibili combinazioni tra pellicola e pittura - facendo eco all’osservazione di Manet, che intravedeva nell’immagine un dire senza parole - ed a realizzare i primi progetti, come “Six Figures Gettin Sick” del 1966 e “The Alphabet” del 1968, a metà strada tra l’installazione e il cinema sperimentale.</span></span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><br /></span></div><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">A partire dal 1970 Lynch si dedicò quasi esclusivamente al cinema, ottenendo una sovvenzione di 5000 dollari dall’American Film Institute e realizzando “The Grandmother”; un’intensa pellicola di trentaquattro minuti nella quale concentrò alcuni temi di fondo della sua ricerca, come i progressivi cambiamenti delle forme e l’oscurità pervadente della messa in scena, ottenuta quest’ultima dipingendo le pareti di casa sua completamente di nero. Un ulteriore spostamento, questa volta a Los Angeles, consentì all’artista di iscriversi al Conservatorio dell’American Film Institute e di ricevere un contributo finanziario di 10.000 dollari, con i quali nel 1971 cominciò a lavorare a “Eraserhead”. Ma la realizzazione fu talmente lunga che nel 1974 Lynch trovò il tempo di girare “The Amputee”; un piccolo macabro film di cinque minuti, in cui egli stesso figurò come attore, realizzato con due videocassette di prova. <br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">L’attenzione sviluppatasi intorno a Lynch per via di “Eraserhead” - prima giudicato impossibile da mandare nelle sale, poi divenuto un film di culto grazie all’aiuto del distributore Ben Barenholtz, che organizzò proiezioni presso il circuito dei cinema notturni - convinse il produttore Mel Brooks ad affidargli nel 1980 la regia di “Elephant Man”; basata sulla storia di Joseph Marrick, un uomo vissuto nell’epoca vittoriana affetto da un’atroce mostruosità al volto. Il successo della pellicola, che ricevette otto nominations all’Oscar inclusa quella della miglior regia, rappresentò una sorpresa per quanti non erano in grado di immaginare le capacità di Lynch al servizio del cinema commerciale. Invece nel corso degli anni successivi l’approccio innovativo sviluppato nei confronti del suono, la forte intenzionalità autoriale, il rapporto differenziale con l’immagine e la rappresentazione delle cittadine di provincia dell’America rurale come iconologia di mondi di finzione, trasfigurandone i luoghi in un universo propriamente mentale - una connotazione forse derivata dall’infanzia trascorsa tra continui spostamenti lungo il nord est americano al seguito del padre, un dipendente del Dipartimento di agricoltura - indussero gli addetti ai lavori a coniare espressioni come Lynchland oppure Lynchtouch, ribadendo nell’immaginario collettivo la suggestiva diffusione del progetto del regista americano e scorgendo nei suoi film non tanto delle storie quanto delle esperienze. <br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Da allora Lynch - che nel frattempo si è legato al compositore Angelo Badalamenti, in un fecondo sodalizio artistico alimentato anche dall’incisione di alcuni dischi - ha alternato i passi falsi di “Dune” e di “Fire Walk With Me” ai successi di “Blue Velvet” e di “Wild at Hearth”, quest’ultimo premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1990; per tacere della popolarità recata dal trionfo della serie televisiva “Twin Peaks”, che gli è valsa la copertina di Time. Fino a “Mulholland Drive”, vincitore anch’esso a Cannes nel 2001; che è risultato essere, lungo lo sdoppiamento del racconto e dei personaggi, un oscuro puzzle visuale dove vengono esplorate tutte le possibilità dell’intrigo narrativo, formando così una struttura aperta ad una molteplicità pressoché infinita di interpretazioni, come è stato attestato dall’ampio numero di studi che gli sono stati tributati. Sulle origini del film Lynch dichiarò: «Le parole hanno un grande potere, per i poeti sono strumenti di lavoro. Quella scritta nella notte, unita alla conoscenza della strada, una delle più lunghe e vecchie di Los Angeles, ricca di anime diverse, che attraversa quartieri lussuosi e zone completamente deserte fino a calarsi a strapiombo nell’oceano, ha provocato qualcosa nella mia testa, un incontro misterioso di destini che si intrecciano, forse nella realtà, forse nel sogno. Una strada conduce in luoghi diversi e i luoghi cambiano anche le persone, come i percorsi nel tempo. Mi piacciano le strade, soprattutto di notte, quando sembra di entrare in territori sconosciuti, nell’ignoto». <br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">L’affermazione professionale non ha allontanato Lynch dalla pittura e dalla fotografia, facendone infine un artista poliedrico dall’indubbio talento visionario. Da una serie di paesaggi industriali, terminata alla metà degli anni Ottanta, alla messa in scena di Industrial Symphony N° 1 presso la Brooklin Academy of Music; dalle cinque esposizioni personali, tenute nei primi anni Novanta, alla Mostra presso la Triennale di Milano lo scorso inverno intitolata The Air is on Fire. In un’occasione Lynch ha sintetizzato il suo punto di vista: «La vita è molto, molto complicata e così anche ai film dovrebbe essere permesso di esserlo».</span><br /></div></span></span><div style="text-align: right;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;">Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span><br /></div>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-4932377020051297254.post-19745508788855092452008-03-01T00:00:00.001-08:002008-07-14T05:48:56.505-07:00Sui Clash e sui Nirvana<span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 51); font-family: 'Trebuchet MS'; font-size: 13px; "><p class="MsoNormal" style="margin-right: 11.3pt; text-align: justify; "><span lang="EN-US" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Contemporaneamente l’uscita dei due film che ne ripercorrono le rispettive vicende, la ristampa per i tipi di Arcana di “Death or glory”, biografia dei Clash scritta da Pat Gilbert, e la novità di “Nirvana”, firmata da Everett True e pubblicata da Mondadori, ribadiscono l’attualità del punk, che alla metà degli anni Settanta stravolse le consuetudini pop diventando un fenomeno di costume, e quella del grunge, che invece segnò un’eccitante tendenza stilistica al termine del decennio successivo.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 11.3pt; text-align: justify; "><span lang="EN-US" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Ancora adesso la critica ne parla come gli ultimi significativi movimenti della musica rock; ora così imbrigliata nelle logiche mercantili da non essere più capace di esprimere un messaggio artistico con la vitalità e l’urgenza degli anni passati. Inoltre le due esperienze in qualche misura possono essere messe sullo stesso piano, come ha dimostrato Steven Blush nel recente “American punk hard core”; dove l’avvincente storia tribale della scena americana degli anni Ottanta e l’infernale parabola di band tipo Black Flag e Dead Kennedys vengono descritte come un cruciale anello di congiunzione tra due periodi distanti nel tempo ma in realtà protesi l’uno verso l’altro.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 11.3pt; text-align: justify; "><span lang="EN-US" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Insieme al povero Jeff Buckley e con la possibile eccezione di Beck, Kurt Cobain resta il talento più puro della musica giovanile di questi decenni. Autore di canzoni ispide, condizionate dai Beatles e dalla disperazione, e profeta suo malgrado della Generazione X - come fu etichettata, massificando stile di vita e abbigliamento, l’ondata scaturita dall’affermazione dei Nirvana e dai gruppi grunge, Soundgarden e Pearl Jam in testa, e amplificata dal film “Singles” con Matt Dillon - il giovane musicista passò in un lampo dalla carboneria underground al trionfo di “Nevermind”, uno dei dischi rock più importanti di sempre.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 11.3pt; text-align: justify; "><span lang="EN-US" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">A sorpresa nel 1992 Cobain suonò un lacero accompagnamento musicale in un monologo di William Burroughs, il demone della letteratura, intitolato “The priest they called him”. Il brano durava circa dieci minuti e parlava di un prete tossicomane che alla vigilia di Natale trova per strada una valigia con dentro un corpo smembrato. La stampa scrisse che la chitarra elettrica di Cobain seguiva il testo di Burroughs in modo troppo letterale, piuttosto che contraddirlo, e definì il risultato non memorabile. Ma sul piano umano l’approccio tra i due fu più che amichevole. Cobain era un fan dello scrittore dai tempi del liceo e lo confidò al produttore discografico Thor Lindsay, che conosceva Burroughs e combinò l’incontro. «Aveva qualcosa di infantile, fragile e smarrito che mi attraeva - disse in seguito l’autore de “Il pasto nudo” - ma c’era qualcosa che non andava in quel ragazzo, si incupiva senza ragione».</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 11.3pt; text-align: justify; "><span lang="EN-US" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">La concentrazione di melodia, irruenza e iconoclastia fu ciò che Cobain aveva in testa quando compose quella che nelle sue intenzioni doveva essere la canzone rock definitiva: “Smells like teen spirit”. Ispirato ai Pixies, il furioso gruppo di culto del post-punk che Cobain apprezzava per lo stile dissacrante e i brani spigolosi e frenetici cantanti in gergo spanglish, il brano scaturì dalla frase </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Kurt smells like teen spirit </span></span></span></i></span><span lang="EN-US" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">(che può essere tradotta in </span></span></span><i><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Kurt profuma di spirito adolescenziale</span></span></span></i></span><span lang="EN-US" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">) che Kathleen Hanna, un’amica dell’artista ospite una sera a casa sua, scrisse sul muro dell’abitazione. Cobain la prese come un complimento, pensando si trattasse di un modo carino di fargli sapere che lo riteneva ancora in possesso dell’energia ribelle di un giovane arrabbiato. Fu solo dopo aver registrato il pezzo che si rese conto di essere stato maliziosamente preso per i fondelli. Teen Spirit era infatti il nome di una marca di deodorante femminile per ascelle messo in commercio dalla Mennen. Eppure fu quell’episodio a fornire il titolo della canzone che ancora oggi, a quattordici anni dal drammatico suicido di Cobain, fa dell’angoscia una celebrazione.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 11.3pt; text-align: justify; "><span lang="EN-US" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">E sono distanti pure i giorni della foto dove Joe Strummer, il leader dei Clash, appare come uno scrittore che cattura la lingua del popolo di cui canta le canzoni. Nato in Usa dalle crepe di un suono nero ed aspro, il punk era diventato popolare in Inghilterra. Più in generale la scena americana, dai Ramones ai Talking Heads, appariva priva di una reale forma di impegno. Persino la bands inglesi avevano un’attitudine ambivalente rispetto le politiche degli anni Settanta. Nessuno tra i Sex Pistols e i Jam si avvicinava al radicalismo dei Clash; che al contrario, con la potenza delle loro liriche, svilupparono una coscienza nella cultura pop, determinando il movimento punk e mutando la percezione del senso comune.</span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"><o:p></o:p></span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-right: 11.3pt; text-align: justify; "><span lang="EN-US" style=""><span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);"> </span></span></span></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 255, 255);">Gli ideali che continuano a motivare molti artisti contemporanei arrivano da quella stagione. Dall’ascolto di “London Calling” e da quello di “Sandinista”, in cui la voce di un’intera comunità celebrava il multiculturalismo e indicava le tappe successive; che avrebbe condotto ai libri agrodolci di Hanif Kureishi e alla ricerca senza frontiere di Nitin Sawney, figli del benessere e del Paki-pop. Nell’urlo di rivolta del punk riecheggiava dunque il sorriso del Buddha, fino al commiato dei versi di “Combat Rock” scanditi con Allen Ginsberg. Prima di morire, nel suo ultimo concerto a Londra, Joe Strummer ospitò sul palco l’amico Mick Jones ed insieme suonarono le canzoni del gruppo. Era un concerto di beneficenza per il sindacato dei pompieri. E’ stato detto: una delle cose più difficili da fare nel rock’n’roll è camminare come parli.</span></span></span></span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right; margin-right: 11.3pt; "><span lang="EN-US" style=""><span class="Apple-style-span" style="font-size: small;"><span class="Apple-style-span" style="font-family: verdana;"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(255, 0, 0);">Vittorio Castelnuovo</span></span></span></span></span></p></span>"L'Editore"http://www.blogger.com/profile/17994197299628359677noreply@blogger.com